Eddy Ratti, la fine di un incubo

By 13 Novembre 2014Reportage

A quattro anni dai fatti, Eddy Ratti è stato assolto dall’accusa di doping per “insufficienza e incompletezza di prove”. Contrariamente a quanto stabilito nel 2010 dal tribunale sportivo, il procedimento penale non ha riscontrato elementi a carico dell’ex ciclista, che è stato pienamente scagionato.

La prima ad annunciarlo è stata la moglie Geovana con un post sui social network: “Assolto! Dio è fedele”, ha scritto in un’esplosione di gioia e sollievo. Due concetti che sintetizzano alla perfezione non solo il sentimento di Eddy Ratti, ma l’intera vicenda di cui l’ex ciclista è stato, suo malgrado, protagonista da quel 12 febbraio 2010, quando venne resa pubblica la notizia della sua positività all’eritropoietina in seguito a un controllo antidoping.

Per Eddy era l’inizio di un incubo che sembrava non dover finire: la conferma dalle controanalisi, la squalifica per due anni che ha segnato una prematura conclusione della carriera, un processo penale che, a sorpresa, il 12 novembre 2014 ha dato il suo esito. Un esito positivo e liberatorio, accolto trattenendo a stento le lacrime («mia moglie è scoppiata a piangere per la gioia, e ammetto che anch’io ho resistito a stento»). Un miracolo nel miracolo, perché la sentenza è arrivata, a sorpresa, molto prima del previsto.

Riusciamo a raggiungere Eddy e, mentre parliamo, il suo telefono continua a squillare: felicitazioni e richieste di interviste. A rispondere al suo posto è la moglie, che gli è sempre stata vicina. Un rapporto particolarmente forte, quello tra lui e Geovana, tanto che, quando parla della vicenda, a Eddy viene spontaneo usare il “noi”, a intendere una piena condivisione di sentimenti ed emozioni.

Non è stato facile fin dall’inizio, Eddy, trovarsi in questa situazione.
Vero. Tutto è cominciato per caso e in maniera – verrebbe da dire oggi – piuttosto comica: a causa di un equivoco sugli orari gli ispettori dell’Unione Ciclistica Internazionale mi hanno cercato a casa per un controllo a sorpresa e, non trovandomi, se ne stavano andando; sono stato io a rincorrerli, da Lodi a Milano, e a procurare a mie spese un posto per effettuare i prelievi. Tanto per dire quanto fossi sereno sulla mia situazione.

Succedeva il 21 gennaio. Poi, il 12 febbraio, il fulmine a ciel sereno.
Un fulmine, sì, per i contenuti e le modalità: una telefonata sbrigativa da parte di un funzionario dell’UCI che brevemente mi informava della positività all’eritropoietina. Aggiungendo: «Ora che gliel’abbiamo comunicato, possiamo diffondere la notizia ai media». Penso si possa immaginare il mio stato d’animo, tanto più che, lo ripeto, io sapevo di essere “pulito”.

Eppure anche le controanalisi, poco tempo dopo, hanno dato esito positivo.
Vero, ed è stata un’ulteriore mazzata. Non me lo spiegavo, e intanto la giustizia sportiva faceva il suo corso con la squalifica e i giornali ne parlavano. Ero distrutto. Però…

Però?
C’è un dettaglio di cui solo oggi sono venuto a conoscenza, e che mi solleva. Il mio avvocato ha scoperto che le famigerate controanalisi erano state effettuate presso lo stesso laboratorio delle prime verifiche, contrariamente a quanto assicurato dall’UCI e richiesto dal buonsenso. Come minimo si è trattato di un gran pasticcio.

A quel punto ti sei trovato nei panni del colpevole.
Sì, da perfetto innocente. Una sensazione terribile. Il primo periodo è stato il più difficile: notti insonni, in lacrime. Il sostegno di mia moglie è stato fondamentale per venirne fuori, come pure la solidarietà della chiesa evangelica di Casalpusterlengo, che frequentavamo all’epoca. Ma soprattutto, devo dire, Dio mi è stato vicino anche in quei momenti.

“Dio è fedele”, come ha scritto tua moglie ieri.
Sì, e c’è stato un fatto, in particolare, che me lo ha testimoniato fin dai primi giorni. Il responso dell’antidoping mi è stato comunicato al venerdì. La domenica siamo andati in chiesa, e si può immaginare in quali condizioni. Il pastore, che non sapeva ancora nulla della vicenda, quella mattina ha predicato sulla fedeltà di Dio e sull’importanza di non perdere la fede anche nei momenti più difficili. L’ho preso come un messaggio di Dio apposta per me.

A quando risale la tua esperienza di fede?
Al 2005, mi sono avvicinato a Dio attraverso mia moglie. Però posso dire che fin da giovanissimo cercavo un rapporto con il Signore. Pur non avendo una grande conoscenza di Dio, pregavo tutte le sere: in camera mia lo ringraziavo e gli sottoponevo le mie richieste. A volte elementari, come un risultato scolastico; altre volte più impegnative, come quella di diventare un ciclista professionista. Poi, una decina di anni fa, ho approfondito questo desiderio e la sua conoscenza, che mi ha confermato la sua fedeltà.

Ne avevi bisogno: il percorso sarebbe stato ancora lungo e difficile.
Molto difficile, anche sul piano pratico: un ciclista professionista non guadagna quanto un calciatore, e io oltretutto da un giorno all’altro ero stato scaricato dalla squadra e dagli sponsor, perdendo il mio stipendio; nonostante questo la multa era commisurata all’ultimo stipendio, e poi c’era l’avvocato da pagare.

Difficile non chiedersi “perché?”.
Già. Sia sul piano sportivo, sia sul piano spirituale.

Cominciamo dal lato sportivo. Tua moglie, già nel 2011, in un’intervista aveva fatto un’ipotesi: «Eddy vince e sale sul podio spesso, immagino che seccatura! Perché un ex atleta di serie A passato alla serie B che batte atleti di serie A, credo desse molto fastidio e fosse assolutamente da fare fuori». Tu sei più diplomatico.
Allora diciamo che, in tutta la vicenda, c’è stata una mancanza di etica. Se ci aggiungiamo le notizie che si trovano sui giornali – il riferimento è a un noto ciclista che avrebbe pagato per addomesticare le analisi, ndr – concludo che il ciclismo è uno sport che purtroppo sta degenerando.

Sul piano spirituale, quale risposta ti sei dato?
Non ho una risposta precisa, ma sono certo che un motivo c’è, forse più di uno. Io sono un tipo cocciuto, forse era l’unico modo per farmi smettere prima del tempo perché a qualsiasi altra difficoltà avrei tentato di superarla. E poi, non meno importante, ho imparato molto. Ho capito che cos’hanno provato altri colleghi in situazioni simili e l’importanza della solidarietà: a uno ho anche chiesto scusa per non essergli stato vicino come avrei dovuto, e in seguito a questo mio passo ci siamo riconciliati.

Dopo il primo impatto con la squalifica, come hai vissuto questi quattro anni?
Non è stato facile, ma dopo il trauma iniziale un po’ ci siamo rasserenati, certi che Dio resta vicino ai suoi figli. Ci siamo affidati a Dio, nel bene e nel male, e abbiamo cominciato a pensare: «forse ci aspetta qualcosa di più importante».

Da parte degli altri ti sentivi guardato in modo diverso?
In realtà a cambiare non è tanto il modo in cui ti guardano gli altri, ma come ti senti tu. Io ho sempre continuato a girare a testa alta, ero convinto della mia innocenza; ero preoccupato, anche in vista delle varie scadenze processuali, ma non mi sono mai vergognato di guardarmi allo specchio.

Sicuramente non era questo il modo in cui avresti immaginato di concludere la carriera.
Non nascondo un certo rammarico per il modo in cui sono andate le cose. Ma anche questo, probabilmente, ha un senso.

Potremmo dire che, di fronte alla salita, non hai smesso di pedalare.
Sì, ho semplicemente cambiato rapporto. Ho metabolizzato prima degli altri l’idea che c’è una vita da costruire dopo la carriera sportiva, concetto che molti atleti non riescono ad accettare; spero di potermi rendere utile in questo senso a chi deve superare questo passaggio.

Tu, per esempio, ti sei rimesso a studiare.
Ho seguito un corso per promotore finanziario e, dopo un paio di anni, ora ho deciso di dedicarmi a tempo pieno a Emotions of the world, un progetto artistico che condivido con mia moglie, mettendo a disposizione le competenze manageriali sviluppate una volta smontato dalla sella. Al momento seguiamo venti artisti da tutto il mondo e prossimamente vorremmo aprire una galleria d’arte per valorizzare il loro talento.

Frequenti ancora gli Atleti di Cristo?
Meno di prima, anche per motivi di tempo, ma siamo in contatto; il coordinatore, Anderson, è stato tra i primi a scrivermi ieri esprimendo la sua gioia per la mia assoluzione.

A proposito di solidarietà, come si sono comportati fratelli, amici e colleghi?
I fratelli di Casalpusterlengo e della comunità La Parola della Fede di Milano ci sono stati sempre vicini. Per quanto riguarda gli altri, è noto che quando ti trovi in mezzo alle disgrazie ti restano vicini solamente gli amici veri. In questo senso posso quasi essere contento di come sono andate le cose, perché mi hanno permesso di capire chi stava vicino alla persona, e chi invece stava vicino al personaggio.

Eddy, volendo vedere la vicenda come una corsa, potremmo dire che dopo le tappe di pianura hai affrontato una salita imprevista che ti ha messo in difficoltà ma non ti ha fermato. La domanda nasce spontanea: e adesso?
Adesso continuiamo a pedalare, con più fede di prima. Fino al traguardo.

Paolo Jugovac

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