L’appello di Pastore Seraphim: "fatevi sentire"

By 20 Aprile 2015Dicembre 17th, 2020Chiesa Perseguitata

RIMINI – «Speak out loud!», raccontalo a tutti: è il sobrio ma sentito invito con cui ci congeda alla fine della nostra chiacchierata. Il suo nome è Seraphim ed è pastore di una chiesa cristiana ad Aleppo, in Siria. Una città che prima della guerra civile era una metropoli di oltre tre milioni e mezzo di abitanti e da cui le ultime, drammatiche vicende hanno fatto scappare un numero imprecisato di persone, «soprattutto cristiani». Una questione di vita o di morte per i non islamici soprattutto perché all’ormai cronico, sanguinoso confronto tra le truppe regolari di Bashar al-Assad e oppositori del regime, che si dipana tra scontri in campo aperto e sanguinosi regolamenti di conti, negli ultimi anni si è aggiunto un ulteriore pericolo: il fronte dell’Isis, l’autoproclamato califfato islamico nato in territorio iracheno, si sta infiltrando pericolosamente in territorio siriano. E la prima città di rilievo a subirne le ripercussioni è, appunto, Aleppo.
Seraphim, in realtà, non è il nome anagrafico del nostro interlocutore; non è nemmeno uno pseudonimo, ma un nome adottato per evidenti motivi di sicurezza. È giunto in Italia dopo percorso travagliato, invitato come ospite principale al 31.mo convegno annuale di Porte Aperte; i suoi quattro interventi sono stati ascoltati con particolare attenzione dai quattrocento partecipanti, che a margine delle sessioni gli hanno manifestato un particolare affetto, assediandolo fraternamente senza tregua per invitarlo al proprio tavolo, scambiare con lui qualche parola – attraverso un traduttore o esprimendosi in un inglese maccheronico e seppiato da inflessioni decisamente mediterranee – per lasciargli un indirizzo a cui inviare improbabili e-mail (ci torneremo più avanti), o scattare una foto ricordo. Seraphim si è prestato con squisita cortesia mediorientale, senza negarsi a nessuno e senza dare segni di cedimento. Al termine dei lavori, nel corso di un breve saluto, ha anzi insistito per dedicarci qualche minuto (diventato poi una mezz’ora), tra un caffè e mille interruzioni, per approfondire il discorso sul dramma siriano. Un dramma che il pastore vive in prima persona, ma soprattutto sente in prima persona. Non gli basta mettersi in salvo: sarebbe potuto scappare in più occasioni, insieme alla famiglia, verso località meno pericolose, e probabilmente come pastore ci sarebbe stato bisogno di lui anche lì, per lenire le ferite dei profughi che hanno visto la morte in faccia e ora vivono un’esistenza provvisoria in una tendopoli allestita da un Occidente per il resto fin troppo assente.

Già, l’Occidente. Proprio da qui partirà il nostro colloquio. Pastore Seraphim è una figura sobria, quasi ieratica dietro la barba e i tratti somatici che rivelano l’origine anatolica. Si esprime in un inglese corretto, velato da un leggero accento arabo; parla quasi sottovoce ma con un tono fermo, e fa un certo effetto ascoltare il suo incedere intenso ma sempre pacato, mentre racconta di quando ha visto rapire davanti ai suoi occhi un membro della sua chiesa («sono stati i guerriglieri di Isis, hanno portato via un ragazzo e ancora oggi non sappiamo dove sia o come stia»), o di quando un missile è esploso a pochi metri dal suo ufficio mandando in frantumi tutte le finestre del palazzo eccetto quella davanti alla quale stava lavorando. Vicende che altri avrebbero reso con toni lirici per coinvolgere l’uditorio e magari lucrare la pubblicazione di un libro, ma che Seraphim snocciola con la pacificata sobrietà di chi, pur avendo visto la morte in faccia, continua a credere nella vita e nella missione che gli è stata assegnata: «È un segno» è stato l’unico commento che in tre giorni è uscito dalle sue labbra raccontando l’ennesima occasione in cui ha evitato la morte per un soffio. Per il resto, solo fatti.
Eppure nel suo approccio non si legge rassegnazione, quanto una profonda fede. Una fede tanto radicata da aver fatto suo, in profondità, il motto dell’apostolo Paolo: «Che viviamo o che moriamo, siamo del Signore».

Gli abbiamo chiesto che cosa si aspettava da questa rocambolesca trasferta, e ci ha risposto che l’obiettivo era duplice: raccontare il dramma dei cristiani in Siria e ringraziare i cristiani occidentali per le loro preghiere.
La sua presenza al convegno di Rimini, in questo senso, ha raggiunto l’obiettivo e, forse, ha smosso qualche coscienza in più su una vicenda, quella di Aleppo, meno nota di altre. Nei giorni precedenti aveva parlato in tre chiese locali tra la Lombardia e l’Emilia, riscontrando sorpresa da parte dell’uditorio: «Non se l’aspettavano – racconta -, fino a quel momento per loro la Siria era solo uno dei tanti fronti su cui i cristiani sono perseguitati, forse nemmeno il più urgente: prima vengono Corea del Nord, Somalia, Nigeria, Iraq…». Eppure, attraverso le sue parole, ha colpito il dramma di una quotidianità atroce. Settimane senz’acqua. Mesi senza corrente elettrica («e quindi senza telefono e senza posta elettronica»). Un anno chiusi nel proprio quartiere, uscendo di casa meno possibile e sempre con cautela. Percorsi di guerra – letteralmente – tra il fischio delle pallottole per raggiungere la sala di culto, alla domenica mattina.
«Una domenica in cui era stato particolarmente difficile raggiungere la sala a causa dei cecchini – ricorda Seraphim – ho chiesto a una anziana credente “perché sei venuta?”. Mi sono reso conto che, ironicamente, di solito un pastore fa la domanda inversa, “perché non sei venuto al culto?”. La risposta mi ha toccato: “È meglio morire andando a lodare il Signore, che morire a casa propria”».
Seraphim capisce che il suo uditorio probabilmente non si rende esattamente conto della situazione. Di che cosa possa significare rischiare la vita per raggiungere la chiesa, quando il massimo inconveniente che può capitare alle nostre latitudini è non sentire la sveglia; quando, in Europa, il momento di comunione fraterna vissuto alla domenica spesso viene lasciato in secondo piano rispetto ad altre priorità, alle ragioni familiari o di svago.
La chiesa di Seraphim, prima della guerra civile, contava settecento membri; «il 70% di noi se n’è andato, del resto la situazione è quella che è». Ora, alla domenica, insieme al pastore si raccolgono in 250, un numero ancora sorprendente considerando le condizioni oggettive. A cui va aggiunto un dettaglio non secondario: ad Aleppo sono presenti undici denominazioni cristiane, ma la chiesa di Seraphim sorge in un quartiere musulmano e piuttosto problematico della città. Ad appena cinquecento metri, da qualche mese, si è insediata Al Nusra, elemento che complica ulteriormente il quadro: il gruppo, affiliato ad Al Qaeda, rappresenta un’ulteriore minaccia per i cristiani e si aggiunge all’Isis, che da parte sua organizza frequenti incursioni in città e progetta di conquistarla interamente. Mezzo chilometro separa il territorio sotto il controllo dei fanatici della jihad dalla chiesa di Seraphim. Con un salto indietro di secoli, la chiesa si presenta di fatto come un avamposto in partibus infidelium.
Oltretutto la sua chiesa sorge di fronte alla moschea. Non è un esempio di convivenza civile, non almeno in questo momento, ma piuttosto un costante pericolo: «basterebbe – spiega Seraphim – che un venerdì l’imam, nella sua predica, usasse toni più accorati e intolleranti del solito: è semplice intuire che a quel punto uno stuolo di giovani infervorati, appena usciti dalla moschea, vedendo la nostra chiesa troverebbero pronto davanti a sé l’obiettivo per un’azione dimostrativa dagli effetti devastanti».
Una posizione scomoda, quella della chiesa di Seraphim. «Erano tre le chiese cristiane sulla linea del fronte: una cattolica, una maronita, e la nostra. Che è rimasta l’unica, diciamo così, in funzione». Le altre hanno chiuso dopo essere state centrate dai missili provenienti dalle parti in lotta, missili che naturalmente hanno cercato di centrare anche la chiesa di Seraphim: «due missili sono caduti uno a cinque, l’altro a sei metri dalla nostra struttura», dove peraltro il pastore vive. «Un segno», commenta lapidario Seraphim. Appunto.

Nonostante tutto, Seraphim resta. Resta anche se manca l’acqua, manca la corrente, ed è isolato dal resto del mondo. Chiediamo se il problema risieda nella scarsità di risorse, e la risposta è spiazzante: «il problema è che i combattenti dell’Isis hanno raggiunto alcuni punti nevralgici della città come l’acquedotto e la centrale elettrica. E quindi sottopongono la popolazione a condizioni estreme per esasperarla».
Con quale scopo, però, se il quartiere è musulmano? Non è controproducente? «In realtà no – spiega il pastore – e l’obiettivo è duplice: convincere i cristiani ad andarsene o convertirsi, e i residenti, che spesso sono musulmani di nascita, più che di fede, ad aderire alla causa del califfato».
Poco tempo fa ha visto scorrazzare nel quartiere due estremisti armati fino ai denti su una jeep bardata con la bandiera nera per un’incursione dimostrativa. «Ero nel mio ufficio – racconta – e mi sono chiesto seriamente che cosa avrei potuto fare se solo avessero deciso di varcare la soglia della chiesa. Per l’ennesima volta sono tornato con la mente al Salmo 91, che mi consola costantemente in questi anni di prove».
Ultimamente, dopo che i suoi figli hanno rischiato di restare coinvolti in un serio attentato («questione di appena due minuti: il posto in cui stavano un momento prima è stato colpito, li ha salvati un imprevisto», spiega senza battere ciglio), Seraphim ha deciso di mandare i suoi figli lontano: «li vedo una volta ogni mese e mezzo», confida. Inutile chiedere se gli manchino, la risposta arriva dalle piccole attenzioni di padre: appena poco prima aveva chiesto, con la consueta cortesia, se potesse portare a casa per i suoi figli un paio di gadget in più.

Viene da chiedersi che cosa potrebbe fermare il dramma di milioni di vite. E Seraphim ha le idee chiare, sia sul fronte politico, sia su quello più eminentemente spirituale: «è fondamentale – spiega – che l’Occidente si mobiliti. Se la tragedia siriana continua è perché Arabia Saudita e Qatar continuano a foraggiarne gli attori, e la Turchia permette ai fanatici comodi spostamenti attraverso il suo confine. I Paesi occidentali hanno la forza to speak out loud, per alzare la voce e fermare tutto questo».
Gioverebbe davvero, chiediamo, oppure sarebbe controproducente, portando a un ulteriore giro di vite nei confronti dei cristiani? Per la prima volta Seraphim accenna a un sorriso: «peggio di così – afferma sornione – sarebbe difficile fare. Rischiamo la vita ogni giorno, ci manca tutto, siamo l’obiettivo di costanti attacchi. Con un’azione internazionale la situazione può solo migliorare».

Sul fronte spirituale e sociale il pensiero di Seraphim è più articolato. «I combattenti della jihad, seguaci del califfo dell’Isis, non sono tutti arabi. E non sono tutti autoctoni. Molti vengono dai Paesi occidentali: a volte si tratta di emigrati di seconda generazione, ma c’è anche qualche “convertito”. La domanda da farsi è: perché?».
Per Seraphim la responsabilità è soprattutto culturale: «nei Paesi so called Christian, cristiani tra virgolette, quale tipo di valori, obiettivi, ragioni di vita sono stati trasmessi ai giovani negli ultimi decenni? Se manca uno scopo, è inevitabile che qualcuno resti affascinato da un’ideologia come quella degli estremisti islamici, fino ad abbracciarne la causa».
Non è il solo problema dell’Occidente, continua il pastore: «Voi forse non vi rendete ancora conto che l’invasione non comincia dagli stralunati proclami dei califfi, quando annunciano “conquisteremo Roma”. La conquista nasce da una prospettiva inadeguata sul fronte politico e sociale. Faccio un esempio. Un credente islamico viene in Italia. Sposa un’italiana, e prende la cittadinanza. Divorzia, torna nella sua terra d’origine e si risposa, portando la nuova moglie in Italia, che diventa a sua volta italiana. A quel punto, formalmente, può lasciarla per sposarne un’altra, e pure lei diventerà italiana. E tali saranno, con tutti i diritti dati dalla cittadinanza italiana, i figli che genererà nel tempo dalle sue compagne, e che verranno allevati secondo i dettami del Corano».

Una visione estrema, quella di Seraphim, ma non inconsistente. Il colloquio con Seraphim tratteggia un quadro inquietante, perché testimonia di come il problema sia globale e intrecci ragioni umanitarie e culturali, sociali e spirituali. E di come il Medioriente, in fondo, non sia lontano da nessun punto di vista.
Che possiamo fare concretamente, chiediamo a Pastore Seraphim congedandoci. E lui ribadisce: «Speak out loud, fatevi sentire. Con la preghiera, prima di tutto, che è uno strumento spirituale potente e ci accomuna facendoci sentire un corpo. E poi con il sostegno, ma anche con iniziative mirate a sensibilizzare l’opinione pubblica, capaci di arrivare ai Governi. Se tacete, per noi cristiani mediorientali sarà la fine».

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(nella foto, la città di Aleppo – credit: Mappo via Wikipedia)

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