Ruth e la vita che rinasce

By 19 Maggio 2008Musica e dintorni

MILANO – Decine tra cantanti, ballerini, musicisti, insegnanti, comparse, scenografi, fonici, perfino sarti e parrucchieri, oltre a un numero imprecisato di addetti ai lavori e sostenitori: niente è casuale dietro a “Ruth, la perla di Moab”, produzione della chiesa “Gesù vive” riproposta sabato e domenica presso il teatro Leonardo Da Vinci di Milano, nella seconda sessione dopo l’esordio dello scorso novembre.

Tre anni di preparativi, dall’idea iniziale alla messa in scena, sono quasi un record per il contesto evangelico, poco avvezzo purtroppo alle produzioni di qualità: e già solo per questo valeva la pena di esserci.

Il risultato dello sforzo – in termini di tempo, energie, risorse – è un musical originale, giovane, fresco e profondo, con una prospettiva originale su una vicenda biblica più che nota e molteplici chiavi di lettura metatestuali che si leggono nella trama e si incrociano tra loro dando vita a un quadro efficace. Un lavoro che evidenzia l’esperienza dell’autore Ivan Bonfitto, compositore e regista del musical.

Lo spettacolo si apre con la fine di amore: la morte separa Mahon da sua moglie, la moabita Ruth (Tabita Scannapieco). Questo dramma legherà strettamente Ruth alla suocera Naomi (Patrizia Annunziata), tanto da convincerla ad abbandonare con lei la terra di Moab e seguirla nel suo ritorno in Israele.

Arrivata a Betlemme, Ruth si scontra con l’ostilità degli israeliti, ma allo stesso tempo trova la solidarietà del possidente Boaz (Giulio Martucci), solidarietà che man mano si trasforma in qualcosa di più tenero. Di qui la storia si dipana tra fatti strettamente legati al racconto e altri quadri che, per quanto liberamente ispirati al testo biblico, risultano ben inseriti nel contesto della vicenda.

Il corpo di ballo, versatile e competente, accompagna gli assoli e i duetti dei protagonisti muovendosi su coreografie adeguate, fatte di citazioni e richiami che alternano antichità e attualità: a tratti si improvvisa coro greco, in altre occasioni si fa parte integrante della vicenda narrata, trasformandosi di volta in volta nel gruppo dei servi di Boaz o nel popolo ostile a Ruth.

I testi dei brani si alternano tra delicate liriche d’amore e vibranti accenti di protesta, accompagnati da melodie che, di pari passo, spaziano tra dolci suggestioni arabe e sanguigni scenari rock e perfino tecno, con il contrappunto quantomai opportuno di un arrangiamento sempre all’altezza della situazione.

La capacità interpretativa dei protagonisti (oltre a Tabita e Patrizia ci sono la serva arruffapopolo impersonata da Selene Scannapieco, il servo fedele di Boaz, Michele Loreto, e il sorvegliante Luca Bergantin) viene enfatizzata non solo dalle doti vocali e dalla tenuta di palco, ma anche dalle movenze, dalle intense espressioni facciali, dagli sguardi taglienti, che lasciano indovinare una lunga e proficua preparazione da parte di Matteo Mo e Mara Risitano.

Il musical, come tutte le storie bibliche, pone questioni più profonde di una mera vicenda di vita, aprendo la prospettiva su situazioni senza tempo: come quando, di fronte a una presenza forestiera, si manifesta dapprima il sospetto verso un popolo nemico e poi una marcata intolleranza verso lo straniero. Il sentimento, fin troppo attuale, attraversa buona parte del musical e che si scioglierà solo nel significativo – e non banale – finale.

Ruth si confronta con le difficoltà dell’integrazione in una realtà diversa dalla sua, ma non solo: con una marcata attualizzazione del personaggio la protagonista deve affrontare un dilemma sentimentale, combattuta tra il ricordo di un amore che non c’è più (culminato con l’intenso assolo “Mi manchi da morire” di fronte a un cielo stellato) e il richiamo, insopprimibile, della vita che non si ferma. Il suo personaggio si evolve, sul piano psicologico, da una velata accusa di crudeltà mossa nei confronti di Dio a una fede serena nel piano che Dio ha per lei.

La conclusione dello spettacolo offre una chiave di lettura di sapore evangelistico: Ruth sceglie di non vivere solo di ricordi, ma di affidare a Dio la sua vita e costruire un futuro insieme a Boaz. Una scelta che, ricorda la voce fuori campo nello stringato ma significativo commento finale, darà vita a una discendenza regale, da Davide allo stesso Messia: perché «a volte è difficile immaginare che dal dolore si possa tornare a gioire, o che da una sconfitta ci si possa risollevare, ma tutto è possibile per chi crede».

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