E alla fine arriva Trump

By 9 Novembre 2016Febbraio 6th, 2023Editoriali

La sorpresa è servita: Trump sarà il 45.mo presidente degli Stati Uniti. Ora, naturalmente, è scattata la fase del classico “io lo avevo immaginato”, ma chi ha seguito la campagna per le presidenziali dalle primarie all’election day sa che, tra tutte, in questa tornata elettorale Trump rappresentava l’ipotesi meno probabile: controverso, scorretto, gaffeur in privato ed estremista in pubblico, il magnate era la quintessenza dell’anticonformismo e dell’individualismo. Eppure, a quanto pare, bastava un Trump – questo Trump – per battere Hillary Clinton. E ora Trump – questo Trump – varcherà da nuovo inquilino i cancelli di Pennsylvania Avenue.

Il rapporto degli evangelici con il candidato, dai tempi dei primi caucus a oggi, si è sviluppato in maniera interessante. Partiti rifiutando nettamente l’ipotesi Trump a favore di candidati più vicini, per posizioni etiche e politiche, alla linea conservatrice più classica, i movimenti e le chiese hanno attraversato insieme al Partito repubblicano una sorta di elaborazione del lutto: dalla negazione (“chiunque altro, ma lui no”) al disorientamento (“e adesso che ha vinto le primarie, chi votiamo?”), dalla negoziazione (“in fondo non è così male, è perfino credente”) all’accettazione. Anzi, nelle ultime settimane si sono moltiplicati gli endorsement (anche Franklin Graham ha tolto il veto su Trump), e perfino le profezie di sapore cabalistico (non è una battuta: “nel primo giorno effettivo di mandato, Trump avrà 70 anni, 7 mesi e 7 giorni”) o escatologico (“l’elezione di Trump ci introduce alla seconda venuta di Cristo”).

Scartando gli estremi – che, si sa, non fanno mai troppo bene alla salute – restano i fatti e le promesse. Trump, iscritto alla chiesa evangelica presbiteriana, a giugno si è definito “a tremendous believer”, profondamente credente, anche se inizialmente ha fatto un po’ fatica a inquadrare il concetto di conversione («non ho chiesto perdono a Dio, ma lo farò»); la sua scelta di fede è stata confermata a luglio dal noto James Dobson, e lo stesso Trump ha sottolineato la sua vicinanza all’ambiente evangelico nominando un gruppo di consiglieri spirituali e promettendo di difendere i cristiani mediorientali dall’Isis.

A dargli manforte sul fronte evangelico ha contribuito la scelta del vicepresidente, caduta su Mike Pence: politico esperto ma soprattutto “cristiano, conservatore e repubblicano”, ha costituito una sorta di garanzia e fatto da trait d’union tra Trump e le chiese.

A metà ottobre è emerso lo scandalo dei fuorionda salaci, una vicenda che avrebbe fatto saltare qualsiasi testa. Tranne quella di Trump: il partito ha preso le distanze, mentre la cosiddetta destra religiosa ha archiviato rapidamente la faccenda («Trump ha “senza dubbio” chiesto perdono nelle sue preghiere», ha chiuso la questione Ben Carson); anzi, il suo appeal ha contagiato giorno dopo giorno quella che usualmente viene definita “la base”, dagli evangelici fondamentalisti alle vittime di una crisi che ha lasciato sul campo una ampia fetta del benessere che gli americani ormai davano per scontato (non a caso il motto della sua campagna è stato “make America great again”). E ora forse i media cristiani non hanno tutti i torti nel titolare “gli evangelici portano Trump alla Casa Bianca”.

Trump ha conquistato, giorno dopo giorno, il ruolo di “meno peggio” tra i due candidati. Che, in questa tornata, è stato sufficiente ad accaparrarsi la vittoria.
«I sondaggi più accreditati non sembrano dargli troppe speranze di essere il prossimo inquilino della Casa Bianca, ma con il degno avversario che si ritrova non si può mai dire», scrivevamo lo scorso 10 settembre dopo mesi di montagne russe. E infatti è bastato un Trump per battere una Clinton che, a giochi fatti, si è dimostrata così sorpresa e amareggiata dai riscontri elettorali da evitare ogni intervento pubblico. Di certo la sua immagine diversamente empatica non ha aiutato, e lo scandalo delle e-mail è stato un colpo piuttosto duro; e sicuramente la sua posizione liberal sulle tematiche etiche non le ha accreditato le simpatie dei cristiani.

Ma probabilmente non c’è solo questo. «Hanno perso le donne», è il pensiero di molti in queste ore. E forse l’errore sta proprio lì. Al di là di ogni considerazione politica, suona sorprendente che quanti da un lato sostengano la liberazione dal genere, dall’altro enfatizzino proprio il sesso dei contendenti. Dire che i candidati vanno votati per le loro competenze, visto il modo di porsi di troppi media, sembra la classica foglia di fico che nasconde un ragionamento semplicistico, banale, fazioso. E, a dirla tutta, sessista: non ha vinto un uomo, non ha perso una donna. Hanno vinto e perso due persone: serie o incapaci, autorevoli o infide, esperte o inadeguate. A meno che uno dei due candidati non fosse lì principalmente in quanto donna, o per il cognome di suo marito, e non per il suo cursus honorum. Una prospettiva patetica e sbagliata, ma non solo: sarebbe il peggior insulto possibile per chi ha combattuto con onore e sfiorato un successo storico.

Ma oggi è il giorno di Trump. Una candidatura divisiva fin dalle primarie, una campagna dura come poche altre, un risultato in bilico, un trionfo inaspettato. Nel suo primo discorso si è mostrato elegante nei confronti della sua avversaria e conciliante verso i suoi oppositori, evidentemente consapevole che da lui, ora, ci si aspetta un cambio di registro capace di fronteggiare le responsabilità dettate da un incarico tra i più pesanti del pianeta. Lo aspettano questioni internazionali irrisolte, la scia di una crisi economica fin troppo lunga, un mondo che affronta un incerto cambio di passo di fronte a sfide globali inedite.

Di solito il presidente entrante sigilla il giuramento di inizio mandato con una invocazione: “So help me God”, che Dio mi aiuti. Una speranza, un augurio, una preghiera che ben si attaglia a questo presbiteriano riluttante che è stato capace di attraversare, indenne, mille contraddizioni e ora dovrà dimostrare di poter reggere il peso di mille decisioni.

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