Le responsabilità della libertà

By 27 Agosto 2010Editoriali

Ormai era nell’aria e, nonostante le contestazioni dell’ultimo minuto e le manovre di qualche pio illuso, non poteva che finire così: il Sinodo valdese, riunito a Torre Pellice, ha votato sì al riconoscimento della benedizione per le coppie gay.

Una decisione che un gruppetto minoritario aveva tentato di evitare nelle ultime settimane, con un appello pubblico al Sinodo affinché ritrovasse la fedeltà alla secolare Confessione di fede valdese e, per quanto possa sembrare scontato, al vangelo, evitando decisioni destinate ad allontanare i valdesi dalle altre realtà evangeliche.

L’appello, a giudicare dai risultati del voto, non ha avuto gli esiti sperati. Il documento a favore della benedizione è passato con 105 sì e appena 9 no: un 8% che, volendo proiettare le cifre sul contesto generale, significa 2.400 anime sulle 30 mila che compongono l’ecumene valdese.

Forse, nell’ambito della votazione, ciò che fa più riflettere sono i 29 che hanno scelto l’astensione. La loro decisione, come in tutte le occasioni, può venire interpretata a seconda della posizione di chi guarda: l’astensione potrebbe essere un “no” cui è mancato il coraggio, la convinzione di non poter scegliere al posto di Dio, o il conflitto interiore di un’anima convinta che il Sinodo, su una questione cui nemmeno lo Stato ha ancora dato una risposta, avrebbe dovuto sospendere ogni scelta definitiva.

Resta agli annali, invece, una decisione secca, per quanto mediata dal sibillino paletto di un’applicazione limitata ai luoghi «laddove si sia raggiunto un consenso maturo e rispettoso delle diverse posizioni». Una decisione che fa e farà discutere, e che non può non avere un suo risvolto spirituale. Non vogliamo addentrarci nei perigli del confronto tra interpretazioni ragionato o pret a porter, nei letteralismi o nelle divagazioni schleiermaheriane: se n’è già parlato parecchio e – a giudicare dai risultati – inutilmente. Ci limitiamo quindi a qualche constatazione banale, ma forse non troppo scontata.

Innanzitutto va fugato ogni dubbio: l’accoglienza, cui ci si è appellati spesso in questi giorni, è doverosa. La chiesa nasce con le braccia spalancate e non deve mai chiuderle. Ma l’accoglienza non deve essere fine a se stessa – la chiesa è una casa, non un albergo -, e soprattutto non è l’unico aspetto della vita di chiesa da ribadire.

Ciò di cui nell’ambiente protestante – e, a ben guardare, anche nel contesto evangelico – si sente ormai parlare poco, dopo gli eccessi dei secoli scorsi, è il concetto di peccato. In una società dove tutto è permesso, dove l’essere umano è libero, dove il libero arbitrio ci consente di rispondere delle nostre azioni a Dio solo, si percepisce un generale imbarazzo nel trattare il tema.

Questo imbarazzo porta da un lato a dare al peccato una valenza generica e prevalentemente politica («pecca la multinazionale che inquina, peccano i grandi della terra che scatenano le guerre»), dall’altro a ribadire che “Dio accetta il peccatore”, senza aggiungere che lo accetta quando il peccatore sente il bisogno di Dio ed è disposto a rinunciare a se stesso. Se pretendiamo di portare con noi, nella chiesa, i nostri peccati e le nostre rivendicazioni, forse sentiamo il bisogno di un club, di un gruppo di autoaiuto, di una compagnia di amici, più che di una chiesa. L’appartenenza alla chiesa, è il caso di ribadirlo, non è per tutti, ma per peccatori che riconoscono il proprio fallimento e, dopo una sentita conversione interiore, decidono di affidare la propria vita a Dio, accettando il dono della salvezza conquistato per ogni essere umano da suo figlio Gesù. Ed è una scelta che cambia la vita, dentro e fuori.

L’accoglienza della chiesa è quindi doverosa, ma senza dimenticare i principi che ne giustificano l’esistenza, e che consistono nell’aiutare l’uomo a trovare Dio e ad accompagnarlo verso di lui. Per raggiungere questo obiettivo è opportuno e necessario che la chiesa parli il linguaggio dell’attualità, comprendendo le istanze, le esigenze, i problemi della propria epoca, ma questo impegno non deve portare la chiesa a modellare se stessa – e il Dio che predica – per compiacere l’uomo.

Da secoli protestanti ed evangelici sbandierano la propria libertà di pensiero: ogni cristiano – questa la tesi – deve avere un rapporto personale e diretto con Dio, che lo ispira nell’interpretazione delle Scritture e nell’azione quotidiana. Spesso, però, reclamiamo questo diritto prevalentemente per respingere il giudizio di chi ci sta vicino: consideriamo questa libertà come un’attenuante all’adempimento dei nostri doveri.

Dovremmo tornare a considerare con maggiore serietà la libertà del cristiano. Dio ci concede la sua libertà per consentirci di seguirlo con fedeltà e servirlo con integrità, e spiace constatare come questa libertà sia diventata per molti un comodo alibi per sfuggire a ogni controllo da parte di responsabili spirituali e dalle osservazioni di cristiani più maturi di loro.

Spesso quando rivendichiamo la libertà (di fare, di andare, di latitare, di vestire: la gamma degli esempi sarebbe lungo) non ci rendiamo conto che invocarla è una responsabilità da far tremare le vene e i polsi: significa ammettere di sentire, forte e chiara, la voce di Dio che ci indica la liceità di un comportamento e l’opportunità di una scelta anche quando questa va contro la norma, il sentire comume o addirittura contro un’indicazione divina
accettata da tutti.

Naturalmente siamo liberi di reclamare il diritto alla libertà, ma – come per i giuramenti – dovremmo farlo solo se siamo certi di poter sostenere la nostra posizione davanti a Dio: un Dio che è infinitamente buono, ma che è anche terribilmente giusto, e che detesta sentirsi attribuire parole che non ha detto.

Lutero, Valdo e molti altri, nel corso dei secoli, hanno fatto una scelta controcorrente rispetto alla posizione della loro chiesa, delle autorità, della temperie culturale dell’epoca: ma lo hanno fatto consapevoli della gravità delle loro scelte e sorretti tuttavia dalla ferma convinzione di essere ispirati e sostenuti da Dio in questa loro battaglia. Battaglia che, con l’aiuto di Dio, hanno vinto.

Guardando alla loro storia prima ancora che alla loro vittoria, forse dovremmo chiederci se, nelle piccole decisioni quotidiane e nelle grandi scelte di campo, possiamo onestamente sostenere con altrettanta fermezza che Dio apprezza il modo in cui ci serviamo della libertà che ci ha fornito, o se piuttosto – per il nostro tornaconto, per alimentare il nostro io, per sentirci più moderni – ne stiamo abusando, ignari delle conseguenze, spirituali e sociali, che questo può comportare.

biblicamente – uno sguardo cristiano sull’attualità

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