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   Giobbe
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   Autore  Topic: Giobbe  (letto 894 volte)
ilcuorebatte
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"Noi ci battiamo per il nostro tutto" Atanasio

   
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Giobbe
« Data del Post: 21.03.2008 alle ore 16:18:39 »
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Carissimi,
in questo ultimo periodo sono stato particolarmente attratto dal libro di Giobbe, e dall’esperienza umana e spirutuale di questo personaggio.  Leggendolo ho iniziato a riflettere su quanto questo libro rappresenti e abbia rappresentato nell’esperienza religiosa di un popolo come quello ebraico, ma anche soprattutto per noi oggi.  
La cosa che mi colpisce e’ la sua duplice  prospettiva, prerogativa di un certo genere di letteratura sapienziale, in cui il punto di partenza e’ sempre l’uomo che si interroga, con la sua misura umana, che sente la necessita’ di confrontarsi con realta’ della propria rivelazione. Dove pero’ questa realta’ non e’ come per i filosofi laici, identificata nei limiti imposti dalla vita, ma dal mistero di Dio. La prospettiva delle letteratura sapienziale bilbica, se pur nelle sue tematiche si sovrappone alla ricerca della filosofia, in quanto alla base vi e’ sempre un uomo con i suoi interrogativi esistenziali, e’ diversa in quanto al priveleggio di conoscere il suo punto di arrivo, non conosce sempre le modalita’, come la prima ignora molti elementi, e molte rimangono velate, ma non dubita mai che approdera’ alla sua meta’. La letteratura sapienziale s’interroga sul senso della vita, la vita futura promessa, e’ ancora fuori dagli orizzonti della rivelazione, ma in se e come se gia’ l’avesse ricevuta, in quanto la fiducia che essa deposita in Dio, ne compone l’ossatura stessa.  
Nel libro di Giobbe, l’evidenza di questo si ha solo leggendolo tutto fino alla fine. La prima parte del libro di Giobbe sorprende invece per questa sua  prospettiva intensamente laica, intesamente umana, dove cio’ che emerge nella narrazione e’ l’esperienza di un  uomo che nel suo cammino di fede incontra improvvisamente il dolore, la tragedia ingiustificata, la perdita di persone amate, e allo stesso tempo avverte il crollo, il fallimento, della sua identita’ in Dio. Avverte che la sua conoscenza su cui aveva fondato la sua fede, e’ inadeguata, anzi ingiusta, e la mette in discussione, mette in discussione Dio stesso, sfidandolo, e chiedendogli di andare in giudizio con lui: “In che cosa sono stato mancante? Di che cosa mi accusi, tanto da meritarmi quello che mi e’ successo? ”. Sono le parole che Giobbe pronuncia, che acquistano sempre piu’ forza e convinzione nel proseguio della prima parte dello scritto, mentre sempre di piu’, sbiadite sembrano quelle dei suoi interlocutori, che difendono le ragioni di Dio. Quasi impossibile, trascinati dalla foga oratoria del protagonista, e dalla sua vicenda umana, non arrivare a empatizzare totalmente con Giobbe, e dargli  pienamente ragione, gridare assieme a lui che e’ vittima di un ingiustizia, e che le sue argomentazioni sono indiscutibili.  
La seconda parte, anticipata dall’elogio alla sapienza prima dell’apologia di Giobbe, e dai discorsi di Eliu, e dall’intervento stesso di Dio e’ invece la prospettiva di Dio. Non e’ facile scorgere la risposta al quesito di Giobbe nel contesto del libro. Il quesito dell’autore, cosi’ come posto dal protagonista della vicenda rimane in qualche modo monco, o almeno lo rimane per il laico, per colui che avverte Dio come non necessario nell’orizzonte della sua eperienza umana. Giobbe ottiene la restituzione dei sui beni, e viene riconosciuto giusto, ma non vi e’ una risposta vera e propria, e bisogna sforzarsi di leggerla tra le righe. Vi e’ un  rimando ad una sapienza per l’uomo non accessibile, e alla assoluta necessita’ della fede come risposta finale, alle situazioni dolorosa dell’esistenza.    
Il libro di Giobbe e’ quindi uno scritto sapienziale, ed e’ universalmente oramai codificato in questo modo da una tradizione antichissima, e come altri scritti che rientrano in questo filone classico della letteratura ebraica, e’ anche uno scritto di rottura, con la fede tradizionale, e di forte denuncia, che sfida il perbenismo religioso, e la fede troppo “teologizzata” dei quieti, dell’esperienza di Dio, racchiusa all’interno di rigide definizioni.  
L’autore mette in discussione elementi di fede oramai acquisiti (in fondo non e’ questo il terreno di sfida del dolore, e della prova?), e trovo incredibile che tale testimonianza sia stata ricevuta e abbia trovato posto tra I libri che oggi fondano la nostra fede. Questo mi incoragia a prendere coscienza che il nostro Dio, non ha paura delle domande degli uomini, e che la nostra esperienza religiosa di cristiani oggi non ha paura d’interrogarsi e di confrontarsi su questioni vive, vere e primarie che riguardano l’esistenza.  
In una cultura secolare come quella occidentale, che ha ceduto al pregiudizio di credere che la fede sia solo uno sgabuzzino in cui racchiudere le nostre paure, abbiamo invece risposte antiche da portare, la cui freschezza pero’ e’ pari a quella dei primi giorni in cui furono pronunciate.    
Io ho tratto solo alcuni spunti a partire dal capitolo 16, non ho inserito riferimenti precisi, ma chi ha familiarita’ con il libro non fara’ fatica a ritrovarli, e ho deciso di accompagnare l’autore nel percorso narrativo da lui scelto, perche’ il libro di Giobbe e’ prima di tutto un percorso interiore del protagonista rintracciabile dal suo crescendo di affermazioni; e’ il racconto di quello che via via viene a maturare, ed e’ un esperienza universale, che ci accomuna tutti quando siamo confrontati con la tragedia.
L’esperienza del dolore, quando non compresa, e’ vista e vissuta come un giudizio da parte di Dio. L’uomo e’ nudo difronte al dolore, e avverte la necessita’ vitale di dare un significato e un senso a quello che succede che improvvisamente ti colpisce,  ti priva di quello che ami, e che ti espone all’inutilita’ di confidare di credere in qualcuno. Di cedere al baratro di un’affermazione che la vita non ha alcun senso.  
Giobbe recrimina davanti a Dio la sua felicita’ mancata, l’impossibilita’ di poter con le proprie forze dare sicurezza alla propria vita, e in questo contesta l’inutilita’ della stessa vita che ci e’ stata donata.
Il conformismo religioso, di cui sono armati i suoi amici, ci spinge sempre a vedere nell’uomo abbattuto e afflitto, in prima istanza che tutto cio’ e la conseguenza  del suo peccato e della sua colpa, perche’ diversamente questo metterebbe invece in crisi la nostra fiducia, e le nostre sicurezze.
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ilcuorebatte
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Re: Giobbe
« Rispondi #1 Data del Post: 21.03.2008 alle ore 16:20:19 »
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Queste parole vengono rivolte a Giobbe a motivo della sua protesta: “Tu anzi distruggi la religione e abolisci la preghiera davanti a Dio”.
Se il giusto non ha una sorte diversa dall’ingiusto - dice Giobbe - in questa vita, e come e lui e’ trattato, dov’e’ la nostra speranza? Dove sono la fedelta’ di Dio, e la sua giustizia? Siamo ancora lontani nell’ebraismo, ai tempi dell’autore, nel prendere coscienza di una vita a venire, che sara’ la grande promessa del Regno contenuto nel kerigma cristiano, ma comunque traspare con forza dalle pagine di questo libro la spinta ad aprirsi ad una speranza che va oltre questa vita. L’esperienza religiosa, depositaria della rivelazione di Dio, spinge oramai il suo sguardo verso l’argine  della vita oltre la morte.  Il protagonista, nonstante il ragionamento lo porti verso un agnosticismo avanti-tempo, non puo’ fare a meno di credere che un “difensore” esista, qualcuno al di sopra di tutti, che un giorno palesera’ la verita’ dei nostril cuori. Siamo spinti a credere negli assoluti, e l’assoluto impone che qualcuno nei sia garante.
Il grido di Giobbe: “L’empio prospera, mentre il giusto e’ afflitto”, inclina la fede ebraica, e diventa oggetto di riflessione. In Giobbe il “problema esistenziale” viene portato al centro dell’indagine che nasce dalla ricerca di Dio, la sua domanda e’: “Come posso veramente credere, quando io sono abbattuto da 1000 sventure”, e rifiuta la tesi dei suoi amici che riflettono il pensiero della spiritualita’ comunemente accettata. “Chi e’ l’Onnipotente, e perche’ dobbiamo servirlo? Che ci giova pregarlo? Se questa vita non ci rende il cambio della nostra fedelta’ afferma Giobbe. Domanda che non trova risposta alla prima domanda… “Perche’ vivono I malvaggi, invecchiano, anzi sono potenti…? Cadendo la prospettiva dell’assoluto, ecco subentrare in Giobbe il pensiero della vanita’ della vita. Ci siamo costruiti una “casa” di parole, ma il giusto e l’empio hanno la stessa sorte: “Giaciono insieme nelle polvere, e I vermi li ricoprono”    
L’autore ora cambia la prospettiva, ed ecco intervenire Dio stesso, anticipato dai discorsi di Eliu, e da un elogio alla Sapienza, che non si capisce bene da chi sia pronunciato, in cui si anticipa una prima risposta alla domanda di Giobbe: “Ma la sapienza da dove si trae? E il luogo dell’intelligenza dov’e’? L’uomo non ne conosce la via, essa non si trova sulla terra dei viventi... Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi”…” Ecco, temere Dio, questo e’ sapienza, e schivare il male, questo e’ intelligenza”. L’uomo non puo capire il perche’ di tutto quello che gli succede, ma puo’ tramite la fede restare ancorato alla sapienza, al giusto cammino, anche qundo non comprende cosa gli sta davanti, e il perche’ della prova in cui si trova.      
Dio e’ presente nella vita degli uomini, e il suo agire va oltre quello che noi percepiamo… in questo modo Eliu risponde a Giobbe: “Ecco, tutto questo fa Dio, due volte, tre volte con l’uomo, per sottrarre l’anima sua dalla fossa e illuminarla con la luce dei viventi”. Noi non siamo capaci di scorgere in ogni momento l’operato di Dio e la sua voce in ogni tempo, ed e’ un inganno la convinzione di pensare che Dio sia inoperoso e distaccato dai giorni che viviamo. Dalle parole di Eliu, emerge, per quanto duro e’ difficile da accettare, che anche la sofferenza, quella piu’ impensabile e’ un tempo che puo’ essere usato da Dio, a dimostrazione che la vita dell’uomo sia esso giusto o ingiusto e sempre sotto la sua lente, ma non traspare mai dalla testimonianza di questo libro che Dio e’ il fautore della sofferenza e del dolore; che sia lui a creare le tragedie e le situazioni.
Il libro di Giobbe sotto questo aspetto non si distacca dalla lettura tradizionale ebraica, in cui e’ l’uomo  con le sue proprie scelte a decidere della qualita’ del proprio destino davanti a Dio: “Poiche’ egli ripaga l’uomo secondo il suo operato e fa trovare a ognuno secondo la sua condotta”. Questa affermazione, come detto pero’ sembra non risponde fino in fondo al quesito suscitato dalla trama del libro di Giobbe, che infine viene trovato innocente davanti a Dio, per la sua vita passata, ma presuntuoso perche’ ha voluto chiamare in giudizio Dio, nella prova che ha vissuto. Come l’autore ci tiene a evidenziare: “...Poiche’ Giobbe ha detto: “Io sono giusto, ma Dio mi ha tolto il mio diritto; contro il mio diritto passo per menzognero, inguaribile e’ la mia piaga benche senza colpa.”    
L’autore invece richiama all’attenzione, tematica gia’ cara ai profeti, che l’uomo non perda mai, anche di fronte ai propri buoni traguardi, come di fronte alla sofferenza, la prospettiva di essere creato: “Se pecchi che gli fai? Se moltipliche I tuoi delitti che danno gli arrechi? Se tu sei giusto, che cosa gli dai o cosa riceve dalla tua mano?” Dio non e’ debitore di alcuno, se facciamo il bene, o il male non gli aggiungiamo nulla, ma nella sua giustizia ricompensa, perche’ il suo cuore e’ sensibile al bene. Spiega in questo modo la sofferenza dei giusti: “Se talvolta sono avvinti in catene, se sono stretti dai lacci dell’afflizione, fa loro conoscere le opera loro e I loro falli, perche’ superbi; apre loro gli orecchi per la correzione e ordina che si allontanino dall’iniquita’. Se ascoltano e si sottomettono chiuderanno I loro giorni nel benessere”.
L’epilogo della vicenda si chiude con l’intervento stesso di Dio, che riprende le argomentazioni gia’ esposte da Eliu, e con il pentimento di Giobbe: “ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. “Ascoltami e io parlero’, io t’interroghero’ e tu istruiscimi. Io ti conoscevo per sentito dire ma ora I miei occhi ti vedono. Percio’ mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere”  
 Se la domanda di fondo resta aperta alla mente dell’uomo e non trova un vera soluzione, l’invito e’ invece a sottomettersi nella fede, alla sapienza, anche se troppo elevata per noi da comprendere, di Dio; che nella sua giustizia governa con equita’. Centrale nel pentimento di Giobbe, che gli permette di ravvedersi e trovare comunque una risposta alla sua obiezione razzionale  e’ l’incontro con Dio, che gli fa esclamare… “ora i miei occhi ti vedono”  Resta di fatti significativo nel contesto dello scritto il giudizio di Dio, contro gli amici di Giobbe: “La mia ira si e’ accesa contro di te (Elifaz) e contro I tuoi due amici, perche’ non avete detto cose rette di me, come il mio servo Giobbe” . In realta’ parte dei loro discorsi nella sostanza sono sovrapponibili a quelli di eliu e di Dio stesso, ma il loro intento era quello di dimostrare che cio’ che Giobbe viveva era frutto del suo peccato, e vi era quindi un’atto di accusa da parte loro e questo rimanda alla domanda irrisolta di Giobbe, e al chiamare Dio in giudizio nel merito della sua vicenda. L’epilogo risponde e non risponde, la risposta e’ la non risposta di Dio da parte dell’autore, a significare che nessun uomo puo’ mettere Dio sul banco degli imputati, e per quanto giusta puo’ sembrare la causa dell’uomo nessuno mai potra’ incolpare Dio di nulla, perche’ di nulla e mancante, ma non ha la pretesa di spiegare tutto, o come questo sia stato possible nella vicenda di Giobbe, ma rimanda la questione a un fatto di fede in cui come lettori ci chiede d’entrare, con la giusta prospettiva dell’ordine del creato, per quanto sagggi e intelligenti e moralmente alti, non potremo mai giudicare appieno la scienza di Dio.  
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Re: Giobbe
« Rispondi #2 Data del Post: 22.03.2008 alle ore 09:48:50 »
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Grazie "Ilcuorebatte" per gli spunti di riflessione...
 
Questi in particolare:
L’esperienza del dolore, quando non compresa, e’ vista e vissuta come un giudizio da parte di Dio. L’uomo e’ nudo difronte al dolore, e avverte la necessita’ vitale di dare un significato e un senso a quello che succede che improvvisamente ti colpisce,  ti priva di quello che ami, e che ti espone all’inutilita’ di confidare di credere in qualcuno. Di cedere al baratro di un’affermazione che la vita non ha alcun senso.  
Giobbe recrimina davanti a Dio la sua felicita’ mancata, l’impossibilita’ di poter con le proprie forze dare sicurezza alla propria vita, e in questo contesta l’inutilita’ della stessa vita che ci e’ stata donata.
Il conformismo religioso, di cui sono armati i suoi amici, ci spinge sempre a vedere nell’uomo abbattuto e afflitto, in prima istanza che tutto cio’ e la conseguenza  del suo peccato e della sua colpa, perche’ diversamente questo metterebbe invece in crisi la nostra fiducia, e le nostre sicurezze.

 
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Re: Giobbe
« Rispondi #3 Data del Post: 23.03.2008 alle ore 22:58:52 »
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La vita dell'uomo sulla terra è un duro lavoro; è una battaglia;all'esterno e nel suo corpo, malattie, dolori, fame, morte; dentro, lo scoraggiamento che può arrivare fino a far maledire il giorno della propria nascita (Giob. 3,3ss.).
Ma questa situazione non è voluta da Dio; non è originaria.
Quello che l'uomo dovrebbe essere, secondo il piano originario di Dio, è un'altra cosa: è l'uomo fatto poco inferiore agli angeli, coronato di gloria e di onore, al quale tutto è sottomesso in cielo, in mare e nella campagna (Sal. 8,6ss.).
L'uomo -si dice- all'origine era buono e sano; la salvezza quindi sarebbe "indietro".
Ma per il credente, invece, la salvezza è "in avanti", non indietro!
Non consiste nel rientrare nel paradiso perduto, ma nell'entrare nel Regno di Dio annunciato da Cristo;
non è dunque un ripristino dell'antico e del naturale, ma "un rinnovamento in meglio", una "preparazione evangelica", cioè un elevare l'uomo perchè divenga atto ad entrare nel Regno di Dio.
Gesù cura gli infermi e, insieme, predica il Regno;
moltiplica il pane materiale e promette il pane del cielo.
La salvezza dalla malattia e dalla fame è premessa e segno della salvezza più profonda e totale che si realizza nel credere al Vangelo.
Il Vangelo usa lo stesso verbo "sozo" sia per indicare la guarigione del corpo (il sanare), sia per indicare la liberazione dell'anima (il salvare).
Cristo -e Lui soltanto- può fare l'uomo "sano e salvo".
In questa vita a modo di segno, di promessa e di speranza (Rom. 8,24); nella vita eterna, in modo pieno e definitivo.
 
Un santo abbraccio. Sorriso
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