Meriam è ancora in Sudan

By 1 Luglio 2014Rassegna Stampa

KHARTUM (Sudan) – Poiché sono stata costretta a partorire in catene, mia figlia è disabile». È la dichiarazione rilasciata oggi alla Cnn da Meriam Yahya Ibrahim, la donna cristiana di ventisette anni condannata a morte per apostasia e adulterio, poi scagionata in appello, e attualmente all’ambasciata americana a Khartum in attesa del passaporto sudanese, è stata costretta a partorire in carcere la sua seconda figlia, Maya.
«Non ero ammanettata ma incatenata per le gambe. Non riuscivo ad aprire le gambe e così le donne mi hanno dovuto alzare dal tavolo. Non ho partorito stesa sul tavolo e mia figlia ha qualcosa», ha aggiunto la donna di ventisette anni riferendosi a una possibile disabilità fisica della figlia. «Non so se in futuro avrà bisogno di un sostegno per camminare».

Meriam è stata accusata dal “fratello”, che lei non riconosce, di essersi convertita dall’islam, reato punibile secondo la sharia con la morte, «ma io sono sempre stata cristiana. Non avrei potuto essere musulmana». Quando ho sentito la sentenza di condanna a morte, ho solo pensato a mio figlio Martin e a come avrei fatto a partorire. Ero davvero spaventata dal parto in prigione».

La donna parla di come le altre compagne di cella musulmane la offendevano e degli imam venivano mandati per convincerla ad abiurare il cristianesimo. «Le donne in prigione mi dicevano di tutto e mi schernivano: “Non mangiare il cibo degli infedeli”. Anche gli agenti del carcere si univano e m’insultavano».

Ora Meriam è in attesa dei documenti per lasciare il Sudan per gli Stati Uniti insieme al marito Daniel Wani, ma gli avvocati non li hanno ancora ottenuti. Senza contare che il “fratello” ha aperto una nuova causa per chiedere che sia riconosciuta la loro parentela. «Onestamente, sono davvero infelice. Ho lasciato la prigione per mettere insieme i miei figli e sistemarmi ma mi sono ritrovata di nuovo in prigione e ora protestano contro di me nelle strade».

Rigettando l’accusa di aver falsificato i documenti («sono stati approvati dall’ambasciatore del Sud Sudan e avevo diritto a usarli perché mio marito è del Sud Sudan»), Meriam si dice esausta: «Non riesco neanche a decidermi su cosa fare adesso. Vorrei andarmene e allo stesso tempo non vorrei. Ma lo stato in cui mi ritrovo è sintomo del fatto che sono costretta ad andarmene. Ogni giorno sorge un nuovo problema sulla mia partenza».

da: Tempi.it
data: 1/7/2014

(foto da Tempi.it)

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