Amin fugge dall’Eritrea perché pentecostale

By 19 Febbraio 2008Rassegna Stampa

BARI – Amin, venticinque anni, è costretto a scappare dall’Eritrea a causa delle persecuzioni che lui e la sua famiglia subiscono perché pentecostali, e trova accoglienza e lavoro a Bari.

Amin (nome di fantasia) è uno dei tanti ragazzi extracomunitari della nostra città. La sua unica colpa essere nato nella martoriata Somalia. Abbiamo raccolto la sua storia per rendere visibile l’impercettibile. «Sono nato nel 1983 ad Addis Abeba e sono cresciuto a Dire Dawa. Mio padre fu il primo ad abbandonare l’Etiopia per motivi politici, per il solo fatto di essere eritreo e si rifugiò negli Stati Uniti».

Davvero triste constatare come, anche tra gli stessi figli di un’unica “terra madre”, l’Africa, serpeggi l’orrore della discriminazione. «Nel 1999 – continua – il governo etiope espulse me e la mia famiglia. Io, mia madre e alcuni dei miei fratelli e sorelle siamo andati in Eritrea, mentre altri fratelli sono fuggiti in Kenia». La vita ad Asmara si presenta da subito molto difficile per Amin e i suoi familiari.

«Nei primi mesi del 2000 anche mia madre andò negli Usa insieme a tre mie sorelle per raggiungere mio padre. Ad Asmara rimasi solo io insieme a due fratelli: il mio gemello e il mio fratello più piccolo. L’unica possibilità per sopravvivere, per tutti noi, era quella di dividerci». Amin e i suoi fratelli, dunque, scelgono l’unica strada percorribile, l’alternativa era la disperazione. «Tutti e tre abbiamo deciso di svolgere il servizio militare. Io ho combattuto nella guerra tra Etiopia ed Eritrea per circa un mese, nel maggio del 2000. Ero nell’artiglieria pesante, a Tsorona, al confine con l’Etiopia». I suoi fratelli, invece, svolsero il servizio militare, senza combattere, vicino ad Asmara, nella zona di Adi Abito.

«Finita la guerra ho continuato a fare il militare – ci ha confessato – in una situazione sempre più tesa perché molti giovani cominciavano a disertare. Verso la fine del 2000 anche nella mia caserma cominciò ad aumentare il controllo nei confronti delle minoranze religiose, come la mia. Io, infatti, come gli altri membri della mia famiglia, sono un pentecostale». Amin, purtroppo, comincia a subire vessazioni da parte dei suoi superiori a causa della sua fede religiosa. «Anche nei miei confronti il controllo da parte dell’esercito si faceva sempre più stretto. Mi era impedito di pregare ed ero destinato allo svolgimento dei lavori forzati». Questa situazione si è protratta per tutto il 2001.

«A casa della mia famiglia, ad Asmara, tutti i giovedì si ritrovavano per pregare circa venti venticinque persone, ospiti dei miei fratelli. Nella seconda metà del 2001 la polizia fece più volte irruzione durante le preghiere, intimando loro di non riunirsi più». Il peggio, però, doveva ancora accadere. «Verso la fine del 2001 i poliziotti fecero irruzione e arrestarono una decina di persone. Furono picchiati a sangue e portati in carcere anche i miei due fratelli».

Dopo venti giorni i fratelli di Amin furono scarcerati e con loro anche gli altri pentecostali. Tutti portavano addosso i segni delle percosse subite. Amin e i suoi fratelli decisero a quel punto di scappare. »Ci dirigemmo in Sudan, dove rimanemmo all’incirca per un anno. Avevamo da parte un po’ di soldi e così ci fu possibile sopravvivere». La destinazione ambita, però, era lontana: l’Europa.
«Dopo il Sudan ci spostammo a Tripoli. Abbiamo vissuto lì per cinque mesi. Con gli ultimi soldi rimasti decidemmo di pagarci il viaggio per l’Italia».
I tre fratelli assieme approdarono sulle coste siciliane nel settembre del 2003.

Oggi Amin vive a Bari e lavora in un bar della nostra città. I suoi fratelli, invece, hanno deciso di spostarsi a Milano. «Mi ritengo fortunato. Ringrazio ogni giorno Dio per avermi dato la possibilità di fuggire dall’Africa. Mi spiace soltanto di coloro che sono rimasti lì giù, in quell’inferno terrestre».

di: Gianpietro Occhiofino
da: www.barilive.it
data: 18 febbraio 2008

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