Marques Green: Dio, la famiglia e la pallacanestro

By 22 Gennaio 2008Rassegna Stampa

AVELLINO – «Senza l’aiuto di Dio ora non sarei qui». Questa, in sostanza, la scala di valori di Marques Green, il play di Avellino che sta facendo parlare di sé tutta Italia.

Il forte cestista biancoverde si è confessato questa sera al centro Sociale “S. Della Porta”, durante un convegno organizzato dalla “Yeshua Onlus Campania”, nell’ambito del progetto “Vita”.
Tante riflessioni quelle del colored irpino, che hanno spaziato dal suo rapporto con la pallacanestro alle droghe, dalla famiglia al suo intenso legame con la fede.
Prima di lui, importanti testimonianze di persone uscite dal tunnel della droga, che Marques ha ascoltato con partecipazione e comprensione. «Nelle zone di Philadelphia da cui provengo – ha confessato Green – la droga è un fenomeno comune e molto diffuso. Anche io mi ci sono avvicinato verso i 15 anni, ma poi ho subito abbandonato perché capivo che quell’esperienza, che prima poteva sembrarmi bellissima e soddisfacente, poteva condizionarmi la vita e rovinare il mio sogno di giocare a Basket».
Come un altro grande ex della palla a spicchi avellinese, Ramel Curry, anche il piccolo play è molto devoto e ammette che questa sua fede lo aiuta sia in campo che fuori. «Dio mi ha aiutato in molti momenti della mia vita. Quando sono arrivato ad Avellino con la mia famiglia non tutto girava per il meglio, anzi. La squadra andava male e mia moglie non era contenta del posto. Ci siamo chiesti se fosse stata la scelta giusta trasferirsi qui. Quella notte ho pregato perché sapevo che era Dio che voleva mettermi alla prova. Da allora tutto si è rasserenato: la mia vita va benissimo sia a livello professionale che familiare, con la Scandone che va alla grande e noi che ci siamo ambientati benissimo in Irpinia. Qui sono felice perché so che quando mia moglie e i miei figli escono per strada sono al sicuro, nessuno gli farà del male perché è un ambiente sereno e tranquillo, proprio quello che cercavamo da sempre. Abbiamo anche trovato una chiesa missionaria a Napoli, dove ci rechiamo spesso. Molti altri avrebbero abbandonato, invece grazie alla sicurezza che mi dà la mia fede ho continuato a seguire la mia strada e sono felicissimo».
Fede che a quanto sembra lo ha aiutato anche nella pallacanestro: «Il basket è la mia vita. Per me è stato difficile all’inizio ma non mi sono mai scoraggiato. Ora gioco senza pensare alla mia statura o ai miei limiti. So di non essere perfetto, ma per me l’importante è fare tutto ciò che posso per aiutare chi mi sta vicino, dalla mia famiglia al mio team».
Il momento più difficile della sua vita, Green non lo nasconde, è stato quando si è trovato a dover affrontare una paternità a soli 17 anni. «Quello è stato il periodo più buio per me – ha detto il play – a 17 anni in quella situazione era durissima dover crescere un bambino e io so di non esser certo stato un buon padre all’inizio. Fino ai 20, 21 anni ero “padre”, ma ancora non avevo capito cosa realmente voleva dire. Solo con il tempo ho iniziato a comportarmi come tale, dando la priorità alla mia famiglia prima che a tutto il resto. Senza l’aiuto di mio padre e di mio nonno, e soprattutto senza la mia fede, non so se ce l’avrei fatta. Ora sono contento: va tutto per il meglio, la mia famiglia sta bene, viviamo sereni, il team va alla grande e io mi sento felice. Con l’impegno e il lavoro farò di tutto perché rimanga tutto com’è ora».

da: irpinianews.it
data: 18 gennaio 2008

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