BJU, l’università non sostiene candidati

By 21 Gennaio 2008Rassegna Stampa

GREENVILLE (Carolina del Sud) – La Bob Jones University, culla dei fondamentalisti cristiani e luogo simbolo della speranza di trasformare l’America in una nazione cristiana, non sostiene nessuno dei candidati alla Casa Bianca perché, dichiara, «i politici sono tutti uguali».

«Quattro anni fa i valori erano la torta, oggi al massimo sono la ciliegina sulla panna», Jonathan Pait è il portavoce della Bob Jones University, la culla dei fondamentalisti cristiani, la platea dove un giovane George Bush nel 2000 celebrò la sua alleanza con la destra religiosa, l’ateneo da cui partì la campagna di veleni che distrusse le aspirazioni presidenziali di John McCain, il luogo simbolo della speranza di trasformare l’America in una nazione cristiana.

Il campus è formato da palazzine basse di mattoncini gialli in stile anni Quaranta, nessuno fuma, non si possono bere alcolici, ascoltare musica rock, country o rap, tingersi i capelli o portare i pantaloncini corti. Le ragazze hanno tutte la gonna sotto il ginocchio, meglio se arriva alle caviglie. I 5000 studenti non possono andare al cinema, guardare dvd sul computer, giocare con videogames violenti o volgari, internet è filtrato e la luce si spegne tassativamente alle 11 ogni sera. Ma tutti sorridono e discutono ai tavolini della caffetteria, l’immagine dello studente con l’ipod nelle orecchie e la testa nel computer qui non va di moda. Anzi è proibita.
Otto anni dopo la grande mobilitazione, quattro anni dopo quello che lo stratega di Bush Karl Rove definì “l’incendio delle pianure” con la parola d’ordine dei valori, nessuno ha più voglia di fare crociate.

L’università non sostiene candidati, l’unico a parlare qui oggi pomeriggio è Ron Paul, personaggio minore con idee libertarie e radicali. Per il resto lezioni, preghiera e una sorprendente assenza di politica.
«Oggi i fondamentalisti – spiegano – sono scettici sul ruolo della politica, nel 2004 Bush voleva essere rieletto e costruì una campagna basata sui valori: il rifiuto dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, dell’aborto e della ricerca sulle cellule staminali e così riuscì a creare una mobilitazione straordinaria. Oggi non se ne sente nemmeno più parlare, sono temi usciti dall’agenda». Cammini nel campus e nessuno ha remore a dirlo: nella presidenza di George Bush non è accaduto nulla di quanto era stato promesso, la gente era stata galvanizzata dall’idea che si potesse cambiare davvero, «ora c’è delusione: è diventato chiaro che era un gioco di potere».

«I cambiamenti della morale e della cultura – allarga le braccia Pait mentre ci fa vedere l’incredibile collezione di quadri di ispirazione religiosa con tele di Veronese, Guido Reni e Rubens – non verranno dalla politica o da chi governa, meglio dedicarsi ai nostri ragazzi, aiutarli a crescere a immagine di Cristo, ad essere capaci di comportarsi da cristiani nella vita di tutti i giorni».

L’agenda dei politici e dei media è focalizzata su altri temi e nessun sondaggio chiede più di esprimersi sui matrimoni gay, e allora si guarda a chi sarà più capace di aggiustare il Paese, la sua economia, la guerra, tanto che perfino il pastore battista Huckabee non incanta: «Inutile illudersi: un presidente non è in grado di trasformare l’America in una nazione cristiana».

Tanto che il nipote del fondatore dell’università, Bob Jones III, l’uomo che accolse George Bush, si è schierato con il mormone Mitt Romney. Sembrerebbe un’alleanza impossibile e contro natura, la Bob Jones è famosa per le sue condanne veementi di cattolici e mormoni, invece è accaduto in nome del realismo: troppe tasse, troppo governo, ci vuole un manager, qualcuno capace di decidere, non sarà evangelico ma è comunque contro l’aborto e un convinto sostenitore dei valori familiari.

Otto anni dopo in South Carolina – dove domani si terranno le primarie repubblicane – c’è ancora John McCain in cerca della vittoria che lo proietti verso la nomination, anche questa volta è in cima ai sondaggi e qui continuano a non amarlo, ma adesso non sono scesi in campo. Il professor Richard Hand, da qui spedì la mail in cui si accusava l’eroico reduce del Vietnam di avere dedicato la vita ai party, al gioco, all’alcool e alle donne e di aver avuto una figlia nera fuori dal matrimonio. Il pettegolezzo, infondato, venne pompato dalla campagna di Bush in ogni angolo di questo Stato conservatore e bigotto e distrusse McCain e le sue speranze. L’università prese le distanze ma non ci fu alcun provvedimento contro il docente.

Anche oggi sono tornati a circolare i veleni, ma non vengono da queste aule: si sono convinti chi i politici «sono tutti uguali», meglio impegnarsi per cambiare gli individui nella società, continuare a formare migliaia di pastori per le chiese d’America.

A dire il vero qualcosa è cambiato anche qui, dove i neri sono stati ammessi solo nel 1971: ora non sono più proibiti i matrimoni tra persone di razza diversa (si evitava così il rischio del ritorno alla Torre di Babele) e ovunque c’è scritto che la Bob Jones non discrimina sulla base della razza, del colore o della provenienza. Manca però la parola “gender”, genere, ciò significa che l’omosessualità non è accettata. Quella proprio no.

Nel piccolo museo di memorabilia vicino alla foto di Reagan c’è la pubblicità che l’università faceva sulla rivista Time nel 1967: «Sì, siamo quadrati», diceva lo slogan, «perché essere quadrati – conclude Jonathan Pait – è una dote nel mondo che rincorre affannosamente l’ultimo pettegolezzo su Britney Spears». Fox e Cnn qui non arrivano e nemmeno più i candidati, alla redenzione che passa per Washington non ci crede più nessuno.

di: Mario Calabresi
da: repubblica.it
data: 18 gennaio 2008

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