«Narnia, dove si respira la salvezza cristiana»

By 30 Gennaio 2006Rassegna Stampa

Un capolavoro della letteratura mondiale vecchio di mezzo secolo, Le cronache di Narnia, saga fantasy dello scrittore inglese Clive Staple Lewis, è ora sullo schermo nel film di Disney. Non si tratta solo di un libro per ragazzi: come tutte le migliori fiabe, ha un contenuto di verità che riguarda la vita di ognuno. Lo sapeva bene Jorge Luis Borges, grande estimatore di Lewis, che ha elogiato l’autore di Narnia per «l’inifinita onestà dell’immaginazione, la coerente e minuziosa verità del suo mondo fantastico».
Clive Staple Lewis infatti ha costruito uno dei mondi più affascinanti che siano mai stati inventati. Un luogo con una sua storia e una sua geografia. Il lettore ha l’impressione che Narnia viva autonomamente dalle storie in cui sono coinvolti i protagonisti del racconto. Peter, Susan, Edmund e Lucy sono i bambini a cui accade misteriosamente di entrare in questo mondo parallelo e di incontrare animali che parlano, centauri, gnomi, draghi, fauni e altre figure immaginarie ispirate alla mitologia classica e nordica. E, fin qui, non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che per il lettore l’attraversamento di questo paese fantastico diventa un viaggio dentro se stesso.
Una sensazione che Lewis considerava un effetto primario della “qualità mitica” di un buon racconto fantastico. Una qualità che lo scrittore aveva posto al centro della propria narrativa dal momento in cui aveva fatto proprio l’approccio alla fantasia del suo amico J.R.R. Tolkien che nel monumentale Il Signore degli anelli aveva avuto l’ardire e l’abilità di inventare un mondo in ogni piccolo dettaglio. Entrambi filologi e stimati docenti a Oxford, danno vita agli Inklings, un ristretto ed informale club di professori che ogni giovedì si ritrovava in un pub del Magdalen College per discutere di letteratura e condividere la lettura delle proprie composizioni. E lì, tra una bevuta e una fumata di pipa, Lewis mutua da Tolkien l’idea di scrittore come «subcreatore» che opera in un mondo già creato, con il quale si sintonizza al fine di ricrearlo per svelarne l’intima verità.
Narnia e un re o circondato da montagne e dal mare, ma oltre i suoi confini ci sono potenze che la insidiano. La strega bianca, piena di invidia per ciò che viene donato piuttosto che dominato, la trasforma in una terra oppressa da un inverno perenne e ne priva i suoi abitanti di ogni libertà e bellezza. Saranno i bambini, facendo l’esperienza del male, a restituire Narnia al suo splendore, sulle indicazioni di Aslan, il leone, «terribile e generoso», che con il suo respiro l’ha creata. Forte, calmo, giusto, Aslan si avvale dei piccoli e degli umili (come i piccoli Hobbit della Terra di Mezzo di Tolkien) per salvare il mondo di Narnia. Il riferimento al Dio dei cristiani è evidente e, almeno in questo, Lewis si discosta dall’amico.
L’esperienza della salvezza cristiana, una salvezza non destinata a una massa indistinta, ma a ciascuno, la ritroviamo nella biografia stessa di Lewis. Come racconta lo stesso autore a proposito dei suoi primi anni (Sorpreso dalla gioia, Jaca Book), Lewis nella sua giovinezza si professava ateo pur affermando che i cristiani hanno torto, ma tutti gli altri sono noiosi». Nel 1917 vince una borsa di studio a Oxford, ma viene chiamato alle armi sul fronte francese dove viene ferito in battaglia. Al suo ritorno nella prestigiosa università, la rabbia contro Dio per il fatto di «aver creato il mondo» deve fare i conti con un evento inaspettato, l’incontro con il più maturo e sereno J.R.R. Tolkien che presto diventerà il suo più caro amico. Il cristiano militante, il ricercatore infaticabile, lo straordinario autore di romanzi, racconti, saggi, conferenze, trasmissioni radiofoniche si forma nelle lunghe conversazioni tra i due amici. Provati entrambi dalla trincea durante la prima guerra mondiale, Tolkien e Lewis sono convinti che solo l’epica può raccontare la vita fino in fondo. Come viene descritto molto bene in “Il mondo di Narnia” (San Paolo), un saggio appena uscito sull’opera dì Lewis di Andrea Monda e Paolo Gulisano, due amici credevano nella capacità delle narrazioni popolate di maghi elfi, draghi e altre creature fantastiche di spiegare i misteri del mondo prima della saga di Narnia, pubblicata nel 1950, Lewis si cimenta in una trilogia fantascientifica il cui protagonista, Elwin Ramson, un accademico inglese, filologo, in cui lo stesso Tolkien finirà per identificarsi. La storia è ambientata a Thulcandra ovvero la Terra diventata un pianeta silenzioso, unico in cui non si ode più la voce di Dio, l’unico nelle mani dell’angelo che si è ribellato al suo creatore. Alla sottile psicologia dell’angelo del male Lewis dedica nel 1941 una delle sue opere più geniali, Le lettere di Berlicche, la corrispondenza tra due demoni, uno alle prime armi e l’altro già esperto nel lavoro di dannazione delle anime. Il libro, dedicato a Tolkien (che però rimprovererà l’amico di parlare troppo apertamente del diavolo) è un viaggio nel labirinto del cuore e nelle trappole che il maligno pone all’uomo per portarlo all’autodistruzione. Ma senza pesantezze, anzi con grande humor inglese.
Lewis, come in tutte le sue opere, ha nel mirino la gioia (e il suo umorismo ne è un effetto), quella che egli scorge al limite estremo della storia di ogni uomo.
La gioia nella vita di Lewis prende proprio il nome di Joy, Helen Joy Gresham, la giovane poetessa americana che lo scrittore sposa nel 1956 quando alla donna è già stato diagnosticato un cancro alle ossa. Dopo un inspiegabile periodo di pausa della malattia (che Lewis in una lettera non esita a definire «miracoloso»), Joy si spegne lasciando lo scrittore in un profondo stato di prostrazione. La storia di questo grande amore e dei mesi che seguirono la morte di Joy sono raccontati in un film di Richard Attenborough del 1985 con Antony Hopkins nei panni dello scrittore, Viaggio in Inghilterra, ispirato a Diario di un dolore, l’ultimo capolavoro dello scrittore di Narnia. Lewis osserva con lucida razionalità la propria sofferenza. Non è più il momento di inventare mondi immaginari, sono i giorni della verifica sulla propria carne della tensione religiosa che fino ad allora aveva ordinato la sua vita e i suoi scritti. Ma l’abisso della separazione non si può capire e le domande non hanno risposta («Quando pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è un “nessuna risposta” di tipo speciale. Non è la porta sprangata. Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt’altro che indifferente. («… Come a dire: “Zitto bimbo, non capisci”»). A Lewis rimane il sospetto che «il meglio è forse ciò che meno possiamo capire». Un po’ come la migliore letteratura, che va accolta e vissuta profondamente. E non capita.

di: Stas Gawronski
da: ttL, tuttolibritempolibero de La Stampa
data: 28 gennaio 2006

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