Rock on the Rock, un sabato a tutta musica

By 25 Luglio 2005Musica e dintorni

BRESCIA – Telefonata di amici a sera inoltrata: «Ma dov’è questo San Michele?». Una domanda che, nel fine settimana appena trascorso, si sono posti in molti: tutti coloro che avevano intenzione di recarsi alla terza edizione di Rock on the Rock, il festival che ogni anno porta sul Lago di Garda una dozzina di gruppi musicali cristiani esponenti di quei generi “duri” che vanno tanto di moda tra i giovanissimi, dal metal all’hard rock, passando per death, emo e mille altre sfumature.
Mentre nelle precedenti edizioni la manifestazione – organizzata dal missionario americano Denny Hurst insieme al team dell’associazione Contrasti – ha trovato sede a Salò (2003) e Manerba (2004), quest’anno la scelta è caduta su San Michele di Gardone Riviera, un posto decisamente incantevole sul piano paesaggistico, ma notevomente decentrato rispetto a ogni possibile rotta turistica o commerciale. Per capirci: da Gardone bisognava inerpicarsi per le pendici dei colli che abbracciano la sponda occidentale del Garda, e percorrere una decina di chilometri di tornanti, tra paesaggi mozzafiato e curve insidiose, con piccole segnalazioni in legno qua e là (non sempre in posti essenziali) che timidamente confermavano la rotta come quella giusta. In cima ecco San Michele, frazioncina di una manciata di case, ormai a quota 400 metri sul livello del mare.
Una scelta che dev’essere stata la realizzazione di un sogno per Denny Hurst, cui il retroterra culturale a stelle e strisce suggerisce l’idea, poco praticabile in Italia, di un festival alla Woodstock, dove migliaia di persone possano isolarsi per qualche giornata tra musica e condivisione. Ma una scelta che sicuramente è stata dettata anche dalla praticità: una manifestazione con un impatto di decibel pari a quello di un evento bellico può creare più di qualche noia ai turisti e quindi agli amministratori pubblici che possono aver concesso lo spazio; meglio quindi optare per un paesino a distanza di sicurezza dalle orecchie delle famiglie teutoniche e degli anziani in vacanza sul lago.
Dopo l’esordio, bagnato dalla pioggia, di venerdì 22 luglio con Burden of a Day (USA), Day by day (Francia) e Superhero (Scozia), il clou di Rock on the Rock si è avuto sabato 23. La serata è iniziata a ritmo di rap con Gleam Joel ‘n Crew, duo svizzero-keniota che canta in inglese (il keniota) e in italiano (lo svizzero); interessante notare che, a fronte di un look disimpegnato da parte del rapper africano, l’abbigliamento proposto dal socio svizzero ricordava fin troppo da vicino il non troppo commendabile Eminem, cappuccio incluso.
La vocazione metallica della manifestazione è stata ricordata subito dopo dagli Antidemon, gruppo brasiliano di death-emo (per chi comprende il linguaggio cifrato dei nuovi generi) già presente alla precedente edizione; chi ricordava la percussionista dello scorso anno, che caratterizzava la formazione – per intenderci, quella che picchiava come un fabbro sulla batteria – sarà rimasto deluso: un malessere improvviso ha costretto la band ad avvalersi di una riserva, nome in codice “Wanderlinden”, che comunque non ha sfigurato: al di là delle possibili riserve sul genere proposto, va detto che la band dimostra qualità tecnica e preparazione. Immancabile la performance urlata del cantante e bassista, ormai noto per la sua inflessione vocale volutamente rauca (inquietante, per i non addetti), che rende incomprensibili ai più i testi proposti; meglio le testimonianze e le riflessioni, ammanite a piene mani tra un brano e l’altro, che invitava i presenti in modo chiaro e senza compromessi a trovare Dio nella propria vita e a instaurare un impegno spirituale intenso e coerente; a metà esibizione addirittura ha voluto proporre un appello ai presenti, invitandoli sotto il palco per una “preghiera di conversione” guidata. Non sappiamo quanta convinzione possano aver messo in questa loro preghiera i tanti metallari che si sono lanciati sotto il palco appena invitati a venire avanti, e forse spiazzati dal dover poi aderire a un appello così diverso dai loro standard; a ogni modo, tanto di cappello di fronte al messaggio predicato.
Dopo gli Antidemon è stata la volta degli svedesi Mammut, formazione hardcore new metal di Jonkoping: nel corso della loro esibizione si è verificato il picco di pubblico, con un totale di oltre duecento persone nel comprensorio del campo sportivo, miglior risultato delle tre serate.
Chiusura di serata con gli Altripercorsi, gruppo veterano dell’evento, a tuttoggi l’unica formazione italiana a convincere il pubblico evangelico proponendo un rock italiano serio, senza sconti ai benpensanti ma allo stesso tempo senza fronzoli autoreferenziali. Lontani i tempi in cui scrivevano nella loro biografia che gli Altripercorsi desiderano “raggiungere i loro coetanei” (erano gli anni Novanta), la formazione milanese ha saputo rinnovarsi e mantenere qualità tecnica, linguaggio fresco, ritmo coinvolgente e uno stile che permette loro di interagire con chi ascolta.
Inizio di performance sui suoni pad di Gianfranco Bruno, e atmosfera progressive per “Hai bisogno di me” dal ritmo ballad; segue “Storie vissute”, un cavallo di battaglia degli AP, proposto in versione più dura del solito per non perdere la cittadinanza al festival; e poi via con “Il freddo dentro”, che lascia Bruno con il fiatone e l’inedito “Fuori dal pianeta silenzioso”, che esprime rabbia per quel che succede, prima di proporre la speranza in Dio che può risolvere anche le situazioni peggiori.
Abbigliamento estivo nonostante l’ora (ormai le 22) e la temperatura non certo cittadina (d’altronde in mezzo alle montagne, con un venticello costante e la pioggia in agguato non si poteva sperare in una calura tropicale), gli Altripercorsi non hanno trascurato di lanciarsi poi in una (brevissima) carrellata dei successi degli ultimi dieci anni: nel confronto era impossibile non notare la differenza tra le ultime creazioni, lanciate alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi, e i vecchi successi, più orecchiabili, melodici, insomma meno “duri”.
“Girotondo”, con la chitarra acustica e un’ispirazione dichiarata a Crosby Still & Nash, ha introdotto un inaspettato momento di lode comunitaria sulle note di “A lui che siede sul tron”. Doveva essere solo un intenso intermezzo e invece, per questioni di quiete pubblica, è stato l’ultimo brano, dando così alla serata una conclusione e una connotazione diversa: meno dura, meno urlata, meno estrema. E, probabilmente, era giusto così.

(Paolo Jugovac)

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