Dopo Parigi

By 15 Gennaio 2015Media&Fede

Integralismo e convivenza civile, libertà e rispetto: sono questi i binari su cui continua a svilupparsi sui media il dibattito dopo i drammatici fatti di Parigi.

La tribuna internazionale si interroga se si sia trattato di un gesto “inutilmente provocatorio” e se “il diritto alla libertà di espressione include quello all’offesa”, e se da un lato condanna senza dubbi l’azione terroristica e la sua matrice, le sfumature sul modo di considerare la linea editoriale del giornale satirico varia da testata a testata.

Posizioni discordanti, in particolare, vengono espresse dai giornali d’oltreoceano. Per Ross Douthat del New York Times, «di fronte alle armi, liberalismo e libertà richiedono che il diritto a offendere sia benvenuto e difeso»; gli fa eco Martin Baron, uno dei capiredattori del Washington Post, secondo cui il giornale «evita di pubblicare materiale che di proposito o senza motivo sia offensivo verso gruppi religiosi».

Ma c’è anche chi si spinge oltre, accusando il periodico francese di «irresponsabilità editoriale». Il direttore del Financial Times, Tony Barber, è netto: «Non è per giustificare in alcun modo gli assassini o che la libertà di espressione non si estenda a rappresentazioni satiriche della religione, ma per dire che più buon senso sarebbe utile a testate come Charlie Hebdo, che pretendono di colpire in nome della libertà quando provocano i musulmani e invece sono solo stupidi».

La scelta di ripubblicare o meno le vignette, insieme alla valutazione di principio sui limiti di responsabilità della satira, rimbalza in Europa e viene raccolta da Giovanni di Lorenzo, direttore di Die Zeit: «vogliamo documentare e non dividere… Quanto alla domanda se la libertà di espressione si possa spingere o meno fino all’offesa, non si può rispondere in modo teorico. Dire che non pubblicheremo mai nulla che sia blasfemo o offensivo, ci condannerebbe a fare un giornale incolore e conformista. E sarebbe molto peggio che offendere sentimenti o convinzioni etiche».

«È vero, c’è una diversa sensibilità tra americani ed europei davanti alla pubblicazione di vignette satiriche volutamente volgari, offensive, blasfeme – ammette Robert Darnton intervistato dal Corriere -. È il frutto delle diverse storie culturali. Negli Usa, anche se viene difesa un’assoluta libertà d’espressione, non c’è mai stata una tradizione di forte anticlericalismo, mentre il puritanesimo ha limitato le espressioni volgari, l’esibizione di nudità».

Pierluigi Battista sul Corriere della Sera ricorda che il dibattito non nasce oggi, e già nel 2006, di fronte a vicende tristemente simili, il Premio Nobel José Saramago affermava che «alcuni ritengono che la libertà d’espressione sia un diritto, ma la cruda realtà impone dei limiti», e lo stesso Vauro – noto vignettista satirico italiano – rilevava come «non ci si può indignare se messaggi violenti ottengono e provocano reazioni violente».

A suonare le corde della responsabilità è anche Francesco Bonami che su La Stampa ricorda come «la libertà e la libertà dell’arte è anche quella di poter andare ben oltre i confini della diplomazia e della politica. Ma anche l’arte, la satira e l’umorismo devono ricordarsi che un invisibile confine c’è fra lo scherzo e lo sberleffo fra la risata e il dispetto fine a se stesso che si autocompiace di aver avuto l’ardire di fregarsene della follia e della brutalità umana. L’orrore che proviamo davanti alla tragedia di “Charlie Hebdo” non deve farci dimenticare che civiltà significa anche responsabilità, equilibrio, lucidità e che coraggio e libertà non devono essere confuse con l’arroganza culturale e intellettuale».

Questione di principio, ma anche molto pratica secondo Giuseppe Anzani, che riflette su libertà e limiti: «Sui dogmi della libertà di stampa, occorre dire senza ironie, ma senza ipocrisie. Con il realismo di chi sa che la libertà non abita il mondo degli assoluti, ma si spende per intero nel mondo delle relazioni umane, e ha dunque a che fare anche con il rispetto degli altri, con la giustizia, con la verità. E riguardo alla satira, non è un salvacondotto il far ridere… È il pensiero che segna la libertà… Torniamo dunque alla libertà, e al limite della sua rivendicazione, quando invade e offende la sfera intima che altri uomini hanno cara (e rivendicano libera)».

Molto meno transigente il direttore della Catholic League, Bill Donohue: «i musulmani hanno il diritto di essere arrabbiati», afferma, aggiungendo che «se Stephane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, fosse stato meno narcisista, oggi sarebbe ancora vivo. Maometto per me non è sacro, ma non mi è mai passato per la testa di insultare deliberatamente i musulmani offendendolo».

Concetto ribadito alcuni giorni dopo in maniera più vivida da papa Francesco nel suo celebre intervento a braccio, rimbalzato con ampio risalto sui media di tutto il mondo, in cui ha commentato che se anche un grande amico «dice una parolaccia contro mia mamma, lo aspetta un pugno… è normale!».

Ma il dibattito si insinua anche nel mondo musulmano, dove il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha chiesto alle autorità religiose dell’università di al Azhar – centro culturale con un’autorevolezza e un ruolo nevralgico per la dottrina islamica – una “rivoluzione” per “sradicare” il fanatismo: «È possibile che la nostra dottrina – ha chiesto al Sisi – debba fare di tutta l’umma una sorgente di pericolo, uccisioni e distruzioni per il resto del mondo?».

Sul punto esprime la sua perplessità Vittorio Messori: «L’ipocrisia dell’ideologia oggi egemone, la political correctness, ha tentato e tenta esorcismi, costruendo, per tranquillizzarsi, un ideale di “islamismo moderato”, da incoraggiare e accrescere ripetendo il mantra del “dialogo”. Ma chi conosce davvero il Corano, chi conosce la storia e la società cui ha dato forma in un millennio e mezzo, sa che non hanno torto quei musulmani che chiamiamo “estremisti” (usando le nostre categorie occidentali) a gridare, kalashnikov alla mano, che un maomettano «moderato» è un cattivo maomettano. O, almeno, è un vile che Allah punirà».

Se il problema del rapporto con l’islam resta aperto, secondo Giuliano Ferrara, parte della qestione dipende anche dal modo in cui l’Occidente vede se stesso: quella di Al Sisi per Ferrara è una scelta “coraggiosa”, che indirettamente mette in luce sull’altro fronte il “senso di colpa” che “paralizza l’Occidente”, pervaso ormai dall’idea «che sia colpevole di tutto ciò che c’è di orrendo nel mondo, compresa la barbarie omicida di chi si ribella al suo dominio».

Un senso di colpa che, forse, spiega l’amnesia selettiva riscontrata nelle numerose riflessioni di questi giorni, quando la discussione si è concentrata esclusivamente sulle implicazioni e sulle (eventuali) limitazioni del diritto di satira, lasciando nell’ombra la questione delle altre libertà di espressione, in primis quella religiosa: argomento vitale per la sopravvivenza di migliaia di cristiani che, ogni anno, rischiano la vita per la loro fede pur senza provocare gli estremismi e gli integralismi con azioni o comportamenti irrispettosi.

(fonti: Corriere della Sera, La Stampa, Avvenire, agenzia Ansa. Ultimo aggiornamento: 17/1/2015)

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