Un Sanremo all’insegna della trasgressione

Alla fine a Sanremo ha vinto il rock dei Måneskin. Non è la prima volta – era già successo nel 1993 con Ruggeri e la sua “Mistero” – e del resto la loro non è nemmeno l’unica canzone presentata all’Ariston nel tentativo di oltrepassare un confine, segnare un distinguo, rivoluzionare l’ordinario in un contesto – il Festival – che dell’ordinario è custode e che, nel tempo, ha subito gli urti più clamorosi senza venirne travolto. Dei Måneskin, oltre alla giovane età (ma anche questa non è una novità assoluta), rimarrà la brama di contraddizione, fluidità, trasgressione. Rimarrà, ma senza lasciare troppo il segno: «forse pensano che basti essere maleducati in diretta – riflette l’Osservatore romano – o raccontare di quando dà fastidio il sospensorio sotto la tutina. Ci vorrebbe altro».

In realtà sul palco dell’Ariston le provocazioni non sono mancate nemmeno nei confronti della fede cristiana. Francesco Ognibene su Avvenire prova però a guardare la questione da una prospettiva diversa: da un lato si chiede come mai l’uso dissacrante di simboli religiosi non viene visto come una cattiva idea, nonostante “rischia seriamente di urtare o ferire la sensibilità di molti, come per una battuta sessista, omofoba o razzista”; dall’altro si interroga sulle ragioni di questa insensibilità dilagante: ipotizza che «la testimonianza e la comunicazione della nostra fede hanno forse perso contatto con tanta gente reale, e quel che abbiamo visto a Sanremo è solo il sintomo rivelatore di un non-annuncio alle persone in carne e ossa del nostro tempo… Faremmo bene a riflettere, evitando di cambiare discorso col gridare alla profanazione».

foto: avvenire.it

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