Cambia il mondo

By 24 Dicembre 2012Editoriali

No, il mondo non è finito il 21 dicembre. E nemmeno il 22. Non avrebbe senso ribadirlo, se non fosse per il sorprendente spazio che l’onda informativa e l’umore popolare hanno accreditato, forse per consolarsi della fine di un’epoca, a una bufala che aveva ben pochi motivi per venir presa in considerazione. Naturalmente molti cristiani hanno colto l’occasione per far riflettere sulla fine del mondo, quella vera, prossima ventura (di cui, è utile ricordarlo, nessuno sa la data: si rassegnino i profeti di sventura e gli archeologi della domenica); molto meno si è ragionato su quanto davvero i cristiani, oggi, attendano con interesse, con ansia, con trepidazione quella seconda venuta di Cristo che dovremmo invocare e che invece, avvolti nel comfort di una crisi che non basta a farci dire “basta”, continuiamo a chiedere solo a mezza bocca.

E dunque, salvo imprevisti, prima della fine del mondo arriverà ancora una volta la fine dell’anno. E, sempre salvo imprevisti, prima di vedere un nuovo mondo vedremo sorgere un nuovo anno.

Ai bilanci ci eserciteremo tutti, sperabilmente con serietà e una sana dose di autocritica, nei prossimi giorni, salvo poi dimenticare tutto entro l’Epifania e continuare nella speranza che cambi qualcosa attorno a noi mentre noi rimaniamo inchiavardati alle nostre abitudini. Non è un discorso politico: non solo, quantomeno. Perché possiamo considerare la politica come un elemento lontano da noi, ma non potrà mai esserci del tutto estranea: viviamo in una società che, volenti o nolenti, va governata, ed è nostro interesse che questo avvenga in maniera meno ostile possibile alla libertà di espressione e di culto, alla tutela dei valori della vita e, perché no, con una linearità etica degna di questo nome.

Ma un cambiamento politico, appunto, dipende da noi solo in parte; risulta invece molto più immediata e urgente, per il nostro futuro, una seria riflessione, abbinata a una sana autocritica, capace di portarci a una radicale valorizzazione di quella “testimonianza cristiana” che ogni credente dovrebbe sentire il peso di sostenere, nel suo privato e nello spazio pubblico. Su questo versante dovremmo impegnarci sempre di più, mettendoci – come si usa dire oggi – la faccia e studiando le formule più efficaci per dire, attraverso la nostra stessa vita oltre che con le parole, che c’è una speranza, che un cambiamento è possibile, che la vita può trovare un senso. E che tutto questo non passa attraverso le urne, ma per un cambiamento interiore, profondo, sincero: la società cambia se, prima, cambia chi la anima.

E allora, per essere efficaci nel comunicare questa Buona Notizia, nel 2013 potremmo provare a concentrarci su due versanti.

Dovremmo provare a essere più cristiani e meno evangelici. Qualcuno potrebbe sentirsi offeso, eppure non dobbiamo dimenticare che siamo chiamati in primo luogo a essere cristiani, seguaci di Cristo, imitatori di quel Gesù di cui, come evangelici ci pregiamo di diffondere il messaggio. Sì, dovremmo provare a essere più cristiani: ritrovando l’umiltà di riconoscere che Dio opera in modi che non sempre a noi risultano lineari, e che non si muove solo attraverso di noi; che la promessa «chi invocherà il nome del Signore sarà salvato» non riguarda solo una determinata denominazione, ma è estesa a tutti coloro – dal ladrone in croce ai nostri fratelli nordcoreani, a prescindere dai distinguo dottrinali – che sono stati toccati, compunti nel cuore da quel messaggio travolgente che è la Promessa contenuta nel vangelo.

Lo predichiamo, lo cantiamo, ma talvolta tendiamo a dimenticarlo. Essere cristiani, oggi, significa aprirsi a un mondo in crisi con l’amore del Samaritano che raccoglie e cura colui che trova in fin di vita sulla sua strada. Significa dire la verità con quell’amore che Gesù ha riservato a tutti coloro che Dio attirava a lui. Significa riconoscere con cuore grato di essere stati amati e perdonati da Dio come i debitori della nota parabola, e sapere che Dio si aspetta da noi lo stesso atteggiamento verso chi oggi si trova nella stessa situazione in cui versavamo noi.

Allo stesso tempo, però, nel 2013 dovremmo essere più evangelici e meno cristiani, se per cristiano intendiamo un modo furbo, opaco, opportunista di vivere la nostra vita cristiana cui una malintesa separazione tra pubblico e privato, spirituale e materiale, trascendente e quotidiano ci ha man mano condotto.
Non sono lontanissimi i tempi in cui si faceva riferimento all’etica calvinista per definire in maniera proverbiale un comportamento ben riconoscibile, fatto di rigore, serietà, coerenza, specchiata onestà. Dovremmo tornare – tutti, non solo noi evangelici – a quell’etica forse un po’ noiosa, a volte scomoda, spesso poco conveniente sul piano personale, dove la linearità faceva premio sull’utilità.
Dove la regola non era necessariamente rigida, ma valeva per tutti, e non esistevano quelle interpretazioni bibliche ad personam (o ad ecclesiam) che talvolta ci rendono così simili alle realtà – religiose e non – che ci permettiamo di disprezzare.

Dovremmo tornare a essere più evangelici anche nell’approccio: evangelici senza troppe etichette, eccessivi distinguo, imbarazzanti settarismi che portano a dividersi rallentando la Missione e a moltiplicare le dispute perdendo di vista lo Scopo. Le anime hanno bisogno di Cristo, e noi siamo chiamati a presentarlo. Punto. La cosa più semplice del mondo, se esercitiamo questa chiamata attraverso lo Spirito, i talenti, l’esperienza, l’ascolto, l’umanità che ci sono stati concessi. E sarà tanto più semplice se ci decideremo a mettere da parte un passato di ragioni, torti, ripicche – e talvolta un presente di personalismo, orgoglio e diffidenza – per accostare le nostre singole, limitate capacità come tessere di un unico mosaico, guardando poi con stupore, giorno dopo giorno, il capolavoro di colori e opportunità che si verrà formando davanti ai nostri occhi.

Di questi cristiani ha bisogno la chiesa. Di questi evangelici ha bisogno il mondo.
Un mondo che non è finito l’altroieri, ma che _x001F_- ci dice la Bibbia – non durerà per sempre. Se fino a quel Giorno – o, più modestamente, almeno per il 2013 – sarà un mondo migliore di come è stato fino a oggi, dipenderà solo da noi.

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